«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL LUOGO SENZA CONFINI
José Donoso
Traduzione di F. Lazzarato
Edizioni SUR 2013
Il bordello di El Olivo, con puttane grasse, vecchie o tristi e uomini senza orizzonti; Manuela-Manuel, vecchia “checca persa” e sua figlia la Giapponesina tenutarie del bordello; Don Alejo padre-padrone, senatore-feudatario del borgo di El Olivo, raffinato, paterno, gelido e amorale; e Pancho Vega, figlioccio di Don Alejo, rozzo camionista brutale e carnale, animalesco nel suo grufolare passioni e rivincite.
Questa la scena e i personaggi de Il luogo senza confini di José Donoso, cileno, il terzo meno famoso dell’immaginario trio di grandi scrittori sudamericani del secondo dopoguerra composto con Garcia Lorca e Vargas Llosa, escludendo uruguaiani e argentini che hanno un tocco letterario diverso, una mescolanza inimitabile di Sudamerica ed Europa.
La storia si svolge in una notte, tra i due luoghi di El Olivo, il bordello e la tenuta padronale. In mezzo e attorno non c’è nulla, solo gli sconfinati vigneti di Don Alejo che soffocano una stazione ferroviaria in disuso e poche povere case malridotte. In questo sta il senso paradossale del titolo, un non-luogo microscopico e decrepito affondato nella distesa sconfinata di un nulla fatto di vigne e oltre a quello il mondo estraneo, remoto, invivibile per il padrone e per gli abitanti del bordello, uniti in questo modo da un comune destino.
La vicenda si svolge tra i quattro personaggi. I due uomini sono i poli opposti, le antitesi, personaggi speculari che cozzeranno nello scontro finale. Le due figure femminili, Manuela padre-travestito e la Giapponesina il centro ambiguo, il nucleo famigliare anormale e immorale secondo il canone comune eppure normale e morale secondo il senso di El Olivo.
Donoso rovescia anche il senso dei luoghi. Il bordello diventa il focolare domestico, il luogo di ristoro e di rilassatezza, la casa accogliente per gli uomini del luogo. La villa padronale è invece tetra, distante, sconosciuta e inviolabile con i quattro ferocissimi cani neri di Don Alejo.
Il libro è un continuo gioco di ribaltamento dei sensi per portare in primo piano le incoerenze e le dissonanze. Don Alejo è sia benefattore e uomo buono, sia padrone crudele e dispotico; Pancho Vega è sia violento e gretto sia aperto verso l’esterno e a suo modo moderno; Manuela è sia uomo che donna, paterno e vigliacco, vezzosa e decrepita; e infine la Giapponesina figlia e padrona del bordello, androgina e adolescente, distaccata e smaniosa.
Gioca con questi ingredienti Donoso per scrivere una storia bella per le tinte calde, ma talvolta sopra le righe, fuori ritmo, colando troppa pittura sulla tela senza amalgamarla bene.
Ed è cosí che Don Alejo e la sua tenuta, con quei quattro cani neri demoniaci di nome e di apparenza diventa una sorta di principe delle tenebre nel suo maniero della Transilvania, Manuela una vecchia isterica drappeggiata di stracci, la Giapponesina una forse frigida ragazzina precocemente invecchiata, le puttane sempre troppo puttane tristi o puttane grasse e Pancho Vega trasmuta da essere un bruto proto-violentatore a l’archetipo del popolano ignorante e greve che si ribella al feudatario per aprirsi al mondo, raggiungere la modernità in camion e sfuggire al luogo dello spirito e della storia che opprime e annulla.
Donoso ha messo molte cose insieme in questo libro: una storia, la Storia, una parabola, delle metafore, dei colori, una critica sociale e forse anche altro. Forse troppo. A mio giudizio troppo, troppo carico, troppi strati, troppe voci, troppi strumenti che suonano per conto loro in un testo di poco piū di un centinaio di pagine. È un bel libro, non fraintendetemi, ma per il mio gusto alla ricerca di un ritmo e di una spirale che si dipani o affondi, suona a volte cacofonico.
Non è tutto. La storia mi ha ricordato un grande libro, L’uomo che si innamorò della luna di Tom Spanbauer, anche lì c’è un bordello sperduto nel nulla del West nordamericano e un’aria famigliare e degli affetti semplici laddove il senso comune vorrebbe trovare solo immoralità. È un libro completamente diverso, estremo e dolcissimo che riesce a infondere un senso sia di magia sia di amore al rovesciamento dei sensi.
Ma ancora di più, la storia del bordello di El Olivo mi ha richiamato come un rombo nella testa la storia del bordello di Santa Maria raccontata da Juan Carlos Onetti in Raccattacadaveri e l’ombra spessa di quel libro strepitosamente bello ha fatto sbiadire El Olivo del povero José Donoso.
Da rileggere Donoso, in ogni caso.
Nota: Una recensione molto bella, e più affettuosa della mia, l’ha scritta Tommaso Pincio per Alias, supplemento de Il Manifesto.