«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
DIGITAL DISCONNECT
Robert W. McChesney
The New Press 2013
Ottimo. Il saggio migliore che ho letto sul tema. Molto meglio di Who owns the future? di Jaron Lanier e meglio di To save everything, click here di Evgeny Morozov. Molto molto molto meglio di quasi tutti i commenti o editoriali che abbia letto.
Per un motivo preciso: contestualizza.
In più si dimostra quasi presciente rispetto le notizie degli ultimi mesi riguardo le violazioni commesse da NSA, provider e corporation ai danni della privacy dei cittadini.
Il problema che rende tragicamente superficiale e inevitabilmente miope molto di quello che viene detto, sia dagli adulatori sia dai detrattori, su internet, l’innovazione digitale, “la rete”, la tecnologia pervasiva o come la si voglia chiamare quella cosa lì, è la mancanza di contesto. Contesto storico, politico, economico e sociale, per limitarmi alle categorie fondamentali.
Quando c’è, è un abbozzo di contesto, una caricatura di analisi storica, economica, politica e sociale, un tentativo infantile e sprovveduto di acquerellare lo sfondo. Questo accade, credo io, per il deficit culturale e la scarsa propensione all’analisi critica dei commentatori che spesso sono dei presunti “esperti di tecnologie”, se non dei “guru di internet”, qualifiche che quasi sempre non significano altro se non l’ignoranza pneumatica per quanto riguarda storia, economia, politica e scienze sociali. Appunto.
In parte è il problema del saggio di Jaron Lanier, ad esempio, molto di più della chiacchierata tra amici di Julian Assange e, in misura 100 o 1000 volte maggiore, dei fringuelli cinguettanti le meraviglie mulinobiancheggianti di internet, il fantomatico diritto umano alla connessione, la democrazia digitale, le twitter-rivoluzioni arabe e la mckinseyana progressione geometrica del PIL pompata da startup tecnologiche. Evgeny Morozov ha una formazione da analista politico e per questo riesce a essere più accurato, poi tende a perdersi in polemiche personali, motteggi e aneddoti.
Robert W. McChesney ha un altro spessore. È un attivista, fondatore di Free Press, movimento d’opinione estremamente attivo sul fronte della libertà di stampa, ha un’esperienza politica ed è un analista politico, è esplicitamente schierato sul fronte della critica al capitalismo – si può ancora dire che esprime una posizione di sinistra? – ed è molto più attento al contesto che fornisce l’humus sul quale si sviluppano le tecnologie digitali e internet che non al folklore e agli aneddoti coloriti.
E infatti, in Digital Disconnect fa una premessa fondamentale: internet e le tecnologie digitali non nascono nel vuoto, non sono l’invenzione miracolosa di un genio solitario, ma i risultati di un processo di sviluppo tecnologico che sta progredendo da decenni nell’alveo del sistema economico capitalistico occidentale, statunitense in primo luogo, con una forte enfasi neoliberista negli ultimi tre decenni.
Ignorare questo dato di fatto storico ed economico significa finire per parlare di favole e di nanetti da giardino, invece di proporre analisi interessanti. E se si deve considerare il sistema economico capitalista, si deve allora per forza considerare la politica, visto che economia e politica, da sempre e per sempre, vanno a braccetto.
Politica. C’è parola che più di questa risulti indigesta e irritante per gli “esperti di tecnologie” e i “guru di internet”? Non credo. Favole e nanetti da giardino quindi.
McChesney nell’introdurre la sua analisi pone le basi metodologiche. Userà gli strumenti e la lente di ingrandimento dell’economia politica, successivamente declinata in economia politica delle comunicazioni.
Political economy should be the organizing principle for evaluating the digital revolution for numerous reasons. The ways capitalism works and does not work determine the role the Internet might play in society. The profit motive, commercialism, public relations, marketing, and advertising—all defining features of contemporary corporate capitalism—are foundational to any assessment of how the Internet has developed and is likely to develop. Any attempt to make sense of democracy divorced from its relationship to capitalism is dubious. Despite all of the routine assumptions equating capitalism—or its euphemism, free markets—with democracy, they remain distinct undertakings with very strong tensions that can boil over into direct conflict.
Per molte ragioni l’economia politica dovrebbe essere il principio guida per valutare la rivoluzione digitale. I modi secondo i quali il capitalismo opera e non opera determinano il ruolo che internet può assumere nella società. La leva del profitto, la commercializzazione, le relazioni pubbliche, il marketing e la pubblicità – tutte caratteristiche peculiari del capitalismo industriale contemporaneo – sono le fondamenta per qualsiasi analisi di come internet si è sviluppata ed è probabile che proseguirà a svilupparsi. Ogni tentativo di dare un senso alla democrazia che sia scollegato dalla sua relazione col capitalismo è sospetto. Nonostante tutte le solite assunzioni che equiparano il capitalismo – o il libero mercato, come viene eufemisticamente chiamato – alla democrazia, i due rimangono concetti differenti spesso in forte contrasto tra di essi, tanto da poter sfociare in conflitto diretto. (questa e le seguenti sono traduzioni mie)
Finalmente. Questo è un contesto chiaro e significativo dal quale poter sviluppare un ragionamento solido, senza favole e nanetti.
Quindi: capitalismo, democrazia, rivoluzione digitale. I primi due sono i perni attorno ai quali si regge la società occidentale, spesso falsamente equiparati, in realtà spesso in contrasto se non in conflitto; il terzo è il fenomeno da contestualizzare.
Piccola parentesi. Imputare la decontestualizzazione del discorso pubblico riguardante internet e le tecnologie digitali solo alle scarse conoscenze dei commentatori è, evidentemente, ingenuo. Decontestualizzare è funzionale alla creazione del mito, e la creazione del mito è funzionale al potere di penetrazione di un messaggio propagandistico e disinformativo. Il mito, spesso, serve a travestire falsità col mantello della presunta verità. I pubblicitari e i demagoghi questo lo sanno perfettamente da lungo tempo.
Per chi volesse approfondire, suggerisco Technological Dramas di Bryan Pfaffenberger (1992) e The Idea of “Technology” and Postmodern Pessimism di Leo Marx (1994).
Ritorniamo a Digital Disconnect. Fissata la premessa, delineato il contesto e l’approccio metodologico all’analisi, vediamone, brevemente, il contenuto.
McChesney lo struttura logicamente in quattro parti:
Anche il focus sul giornalismo, certamente derivato dall’attività dell’autore, risulta estremamente interessante e demistifica molte assunzioni che troppo spesso non vengono messe in discussione. Il giornalismo, o la professione di giornalista o le decine e centinaia di testate, non sono morte a causa di internet, delle informazioni online, del citizen journalism o dell’incapacità di sfruttare il nuovo media da parte degli editori. È avvenuto prima il collasso, molto prima, per ragioni, secondo McChesney, che scaturiscono dal conflitto tra capitalismo e democrazia che è venuto a crearsi dalla svolta neoliberista degli anni Ottanta. Internet ha peggiorato una situazione già compromessa, minando, ma era già minato, uno dei pilastri di una società democratica. Credo che su questo occorrerebbe riflettere meglio, più seriamente e più diffusamente di quanto accade. In Italia il dibattito è allo stato di germoglio bruciato dalla siccità, con contributo decisivo a tale immiserimento da parte degli stessi giornalisti.
In short, the Internet does not alleviate the tensions between commercialism and journalism; it magnifies them. With labor severely underpaid or unpaid, research concludes that the original journalism provided by the Internet gravitates to what is easy and fun, tending to “focus on lifestyle topics, such as entertainment, retail, and sports, not on hard news.” As traditional journalism disintegrates, no models for making Web journalism—even bad journalism—profitable at anywhere near the level necessary for a credible popular news media have been developed, and there is no reason to expect any in the future.
In breve, internet non è in grado di alleviare le tensioni tra commercializzazione e giornalismo; al contrario, le amplifica. Con il lavoro gravemente sottopagato o non pagato, la ricerca conclude che i prodotti giornalistici originali offerti su internet gravitano attorno a ciò che è semplice e divertente, tendendo a “focalizzarsi su stili di vita, divertimento, acquisti e sport, non su notizie serie.” Con la disintegrazione del giornalismo tradizionale, nessun modello per creare un giornalismo Web – anche fosse cattivo giornalismo – è stato individuato che sia redditizio almeno vicino al livello necessario per fondare una testata credibile, e non esiste alcuna ragione per aspettarsi che venga identificato in futuro.
L’analisi di McCheney sul giornalismo è feroce e cupa. Le conseguenze di tale crisi, e il suo valore emblematico di una crisi nello sviluppo di internet, dell’economia capitalista e della democrazia, potenzialmente gravissime.
Talvolta ho sentito o letto giornalisti, opinionisti, attivisti o semplicemente persone informate riferirsi a “La Storia di Internet” indendendo con questo una sorta di natura profonda e inestirpabile di tutto ciò che può essere ricondotto alla protoplasmatica definizione di internet, la quale natura profonda riemerge o riemergerà in tutta la sua carica libertaria, egualitaria, antigerarchica, democratica, in definitiva progressista, come sottinteso. Queste persone farebbero bene a leggere con molta attenzione Digital Disconnect, in particolare il Capitolo 4 The Internet and Capitalism I: Where Dinosaurs Roam?, perché McChesney tratteggia efficacemente la parabola storica e contestualizza bene il ruolo e la limitata, nel tempo, rilevanza della visione utopica-egualitaria, presto neutralizzata e resa insignificante. “La Storia di Internet”, gloriosa e hippy/hacker, è un’altro mito frutto di una decontestualizzazione operata ad arte.
During the 1990s, the Internet was transformed from a public service to a distinct, even preeminent, capitalist sector. The Internet was formally privatized in 1994–95 when the NSFNet turned the backbone of the Internet over to the private sector. Thereafter market forces were to determine its course. The transition culminated a good six years of mostly secret high-level deliberations involving government and the private sector. Compared to the political debate that surrounded the emergence of radio broadcasting in the 1930s or the uprising against Western Union’s telegraph monopoly in the late nineteenth century, there was nary a trace of popular discussion about whether this privatization and commercialization was appropriate and what its implications might be. Press coverage was nonexistent, so the general public did not have a clue; the media watch group Project Censored ranked the privatization of the Internet as the fourth most censored story of 1995. The number-one most censored story was that of the deliberations leading up to what would become the Telecommunications Act of 1996.
Nel corso degli anni ’90, internet fu trasformato da un servizio pubblico a un settore, distinto e preminente, dell’economia capitalistica. Internet fu formalmente privatizzata nel 1994-95 quando la NSFNet rimise il backbone di internet nelle mani dei privati. Da allora le forze di mercato ne hanno determinato il corso. La transizione da pubblico a privato fu il culmine di un buon sei anni di deliberazioni segrete ai più alti livelli che riguardarono il governo e il settore privato. Paragonato al dibattito politico che avvolse lo sviluppo delle trasmissioni radio negli anni ’30 o le proteste contro il monopolio della Western Union sulle comunicazioni telegrafiche alla fine del diciannovesimo secolo, non ci fu la minima traccia di discussione pubblica se tale privatizzazione e commercializzazione fosse appropriata e quali sarebbero potute essere le conseguenze. La copertura stampa fu inesistente e il pubblico non ebbe idea di cosa stesse accadendo; il gruppo d’opinione sui media Project Censored classificò la privatizzazione di internet come la quarta notizia più censurata del 1995. Al primo posto c’era quella riguardante le deliberazioni che avrebbero portato a; Telecommunications Act del 1996.
Internet e telecomunicazioni. Banda, frequenze televisive e pubblicità. McChesney prosegue con un’analisi spietata, ma del tutto convincente, del processo economico-politico di creazione di un regime di oligopolio nei media tradizionali e l’operazione gemella per creare un oligopolio commerciale su internet. L’oligopolio nelle telecomunicazioni, mascherato dalla propaganda sulla deregulation, fu giustificato dall’avvento di internet che avrebbe aperto tali e tante praterie per la libera competizione da rendere la concentrazione nei media tradizionali irrilevante. Poi si procedette alla definizione dell’oligopolio su internet, prima con il cartello dei service provider, poi quello dei padroni del web. Cosa quasi perfettamente riuscita, solo da perfezionare appena un po’, ai giorni nostri.
Privatizzazione, commercializzazione, oligopoli creati dal governo, pubblicità… non basta, il quadro è più ricco, manca, come minimo la guerra sul copyright vinta dalle major e sostenuta, grazie anche a legioni di lobbisti, dai governi, fino alla situazione attuale, parossistica e paradossale per la abnormità insensata dei diritti concessi e la propaganda scatenata contro pirati, peer-to-peer e condivisioni che l’ha accompagnata. Di nuovo, decontestualizzare e creare il mito per non discutere delle conseguenze sul medio e lungo termine, potenzialmente disastrose per la diffusione e creazione di cultura, innovazione, creatività e vitalità sociale che un tale regime di diritti comporta.
Chiudo. Digital Disconnect è un saggio molto pessimista, molto schierato, molto critico, ma anche estremamente lucido, documentato, argomentato e contestualizzato. Uno dei migliori, a mio modo di vedere, anche se non ho mai nascosto di essere io stesso molto pessimista, molto schierato e molto critico. La tara fatela voi.
Non vedrà mai la luce in edizione italiana, sono pronto a scommetterci, ma sarebbe bene che si sapesse che quando si leggono notizie allarmanti circa le invasioni nella privacy dei cittadini, l’azione al di fuori di ogni legge da parte di agenzie governative e militari, la vendita e il commercio di qualsivoglia informazione personale, che di nuovo con un eufemismo pacchiano passa sotto il nome di Big Data, e il giorno dopo, due giorni dopo, notizie zuccherose sul “diritto umano ad essere connessi”, le meraviglie degli occhialetti intelligenti, le ciance polverose sui nativi digitali e le startup e le agende digitali, quello è pessimo giornalismo, frutto della distruzione del giornalismo tradizionale, conseguenza dell’evoluzione della società capitalista sempre più monopolista e polarizzata e dominatrice della politica, pessima politica di lobby e corruzione arrivata a livelli astrali, che sta cozzando, come uno scontro tettonico con il concetto di democrazia e la forma politica degli stati nazionali occidentali, le libertà dei cittadini e il loro futuro benessere. Buon futuro digitale.
Nota: È di oggi, per una di quelle coincidenze bizzarre, maggio la bella intervista di Serena Danna per La Lettura de Il Corriere della Sera proprio a Robert W. McChesney a proposito di Digital Disconnect.
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Una delle prossime letture
L’ha ribloggato su flaneurkh.