«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
QUANDO ORMAI NULLA PIÙ IMPORTA
Juan Carlos Onetti
Traduttore R. Crisafio, P.L. Crovetto
Einaudi 1994
[Libro disperso]
Sono alla fine. Questo è l’ultimo libro di Onetti, ma non l’ultimo che leggo, l’ultimo pubblicato, l’ultima sua opera e l’ultima parola sulla saga di Santa Maria, che qui, al crepuscolo, bizzarramente diventa Santamaría. Un utimo scherzo di questo grandissimo della letteratura mondiale, forse. O un ultimo rimescolare dei piani. Non si sa.
Provo molta malinconia, quel peso che si sente quando si consuma una fine, e in questo caso il verbo “consumare” non è del tutto retorico, perché in effetti questa saga o epica o sogno tinto di cupezza che ha avuto picchi di bellezza stellare (in Raccattacadaveri e Il cantiere, come ho già ripetuto ossessivamente), intermezzi (Gli addii, ad esempio), percorsi di collegamento, qui si consuma in un lungo epilogo amaro, crudele, tragico e come sempre grottesco, sudato e miserabile.
Questa è la grandezza di Onetti, oltre alla sua prosa funambolica e cinica: l’aver raccolto in modo cosí sublime gli opposti letterari, la tragedia e il grottesco, la nobiltà con il sudiciume, la bellezza con la bestialità, il delicato con il greve, il funambolico con l’indolente. L’ha fatto lungo tutta la sua opera e averla attraversata respirandola a fondo è stato per me uno dei piaceri più grandi da molti anni a questa parte.
Quando ormai nulla più importa è l’epilogo di un sogno allucinato, quello di Brausen quando ne La vita breve decise di scrivere una storia ambientata in un paese immaginario di nome Santa Maria, iniziando a popolarla di personaggi, primo tra tutti il dottor Diaz Grey. Enigmatico, distaccato, ambiguo, freddo e carnale, equilibrato e debole, è il centro silente e immobile di tutte le vicende. Diaz Grey è il personaggio che attraversa l’intera opera di Onetti, talvolta in disparte, talaltra più centrale, ma sempre è lui la presenza costante di ogni evento di Santa Maria. Con lui Santa Maria nasce ne La vita breve, con lui Santa Maria muore in Quando ormai nulla più importa.
Diaz Grey muore suicida, disfatto, disgregato infine, quando tutto crolla, tutto cede, dopo l’ultima tragedia, l’ultimo fallimento, inevitabile epilogo di ogni percorso attraversi Santa Maria dove nulla ha successo, nulla germoglia e si sostiene, tutto è effimero e implacabilmente grottesco, predestinato a tornare polvere, o a non sollevarsi mai, come piccoli vermi brulicanti che alzano il capo per un attimo poi ritornano a strisciare nella terra.
Quello non era più Diaz Grey. Era solo un vecchio ubriaco, senza pudore, che di quando in quando sollevava la sua calvizie e i suoi occhi rassegnato a non capire. Anche la sua faccia era ballonzolante, tiranneggiata dalla pelle che poggiava inclemente e antica sopra il teschio, sul quale aveva vegliato proteggendolo fin dal momento in cui qualcuno, sculacciandolo, gli aveva svegliato il primo vagito di pentimento. E ora la pelle, ragionevolmente affaticata dall’interminabile guardia, si afflosciava come per riposare, e si piegava e ripiegava a seguire il profilo delle rughe che le sue sorelle avevano imposto per secoli e secoli prima di spogliar teschi e orbite vuote, prima di trovare il definitivo riposo nel brulichio dei vermi e della polvere.
Pensai che quella cosa, che a rigore era ancora una persona, si stava mummificando, anzi era quasi una mummia. Mi scrutò per un momento, capii che per lui continuavo a non essere nessuno. Aveva davanti una bottiglia e un bicchiere. Non distinsi l’etichetta. Quel semiuomo mi insultò con parole pesantissime, parole che il mio amico medico non si sarebbe neanche sognato di pronunciare. Riempì il bicchiere, incredibilmente senza lasciar cadere una sola goccia. Trangugiò la sua medicina, o forse era veleno, in un solo sorso. Posò il bicchiere sulla scrivania e la testa rovinò pesantemente fino a restar appoggiata sul piano, circondata dalle braccia, nel classico atteggiamento di chi affoga una sbornia colossale nel torpore. Ma lí c’era dell’altro, ben altro che non il semplice alcol.
Ricorda la fine di Larsen ne Il cantiere quella di Diaz Grey; stessa putrefazione squallida, inspiegabile, senza frasi né commiati che nessuno dei due aveva più un’anima da cui accomiatarsi. Lo stesso Diaz Grey sembra essersi sublimato nell’ambiguità autodistruttiva di Larsen: ne ha preso il posto nella villa del vecchio Petrus, ne ha sposato la figlia demente e ninfomane con la quale si accompagnava Larsen e si è dato a traffici di contrabbandieri. Vermi e polvere. Onetti non offre alcuna speranza né timidi raggi di luce. Vermi e polvere, solo questo. Come là chiudeva quel cerchio perfetto della storia di Larsen a Santa Maria, qui Onetti chiude l’intera sua opera. Allo stesso modo, coerente, senza onore né dignità, valori inesistenti a Santa Maria.
Quando ormai nulla più importa è narrato dalle lettere di un personaggio che compare per la prima volta, Carr, un gringo, uno straniero finito a Santa Maria per anch’egli disgregarsi. Le lettere sono datate. Le date non hanno senso, non seguono alcun ordine temporale. Non esiste un ordine temporale a Santa Maria, è un’illusione, è il paese dove i popolani pezzenti invocano il loro proprio Dio e creatore, il Signor Brausen, Brausen è Dio a Santa Maria; il tempo è un tempo scenico, che scorre seguendo i salti dell’allucinazione, pertanto il racconto di Carr, l’epilogo di tutto, ha una scansione temporale ma non un tempo ordinato.
Ricordate quando sostenevo la necessità di invertire la lettura di Raccattacadaveri e Il cantiere, leggendoli in quest’ordine, nonostante il primo sia stato pubblicado dopo il secondo? Come fece, giustamente, Feltrinelli per l’edizione italiana? Dissi che Onetti sfalsava spesso i piani temporali e quindi l’ordine di pubblicazione non era necessariamente quello da seguire. Ecco qui un altro indizio: l’ordine temporale delle lettere di Carr è insensato, secondo i nostri parametri che vorremmo definire “reali”. Ha senso invece nel mondo di Santa Maria, è tempo di sogno, tempo inscatolato dentro delle invenzioni letterarie.
In quest’opera Onetti è definitivo, crudo, aspro. Carr, la voce narrante, l’intellettuale sudicio, è l’alter ego di Diaz Grey nella discesa verso la condizione più miserabile di prosciugamento della propria anima e scarnificazione del corpo. Entrambi vivono una sessualità morbosa a fianco di donne dai tratti animaleschi, fisici o mentali, condividono una stessa ambigua pulsione incestuosa, entrambi osservano il proprio essere alla deriva, spinti da una corrente alla quale non si oppongono più, ormai privi di una vita, ben prima che sopraggiunga la morte. Il libro è teso su questo dialogo, a volte diretto, altre a distanza, tra Diaz Grey e il suo alter ego narrante, come se i due destini fossero inestricabilmente incrociati e avvitati insieme.
E come sempre, sullo sfondo ma palpabile e invadente come sabbia che s’intrufola nelle fessure, Santa Maria è luogo ostile e melmoso, una melassa ricoperta da uno strato spesso di polvere. Di nuovo c’è un bordello, anche se questa volta appena travestito da locale notturno, nel quale convergono tutte le autorità di Santa Maria: il giudice, il poliziotto, Carr l’intellettuale; solo Diaz Grey non lo frequenta. Non esiste bellezza a Santa Maria, compare solo qualche rara volta e sempre dolorosamente, nei pensieri dei suoi protagonisti.
Il libro ha un’ottima postfazione, di Raúl Crisafio, la migliore che abbia letto finora su Onetti e la sua opera. Disegna in modo preciso e sentito la parabola del ciclo di Santa Maria e le infinite sfumature della prosa di Onetti. Ma ancora di più riporta alla luce il filo che lega l’intera sua opera mostrandone la meravigliosa costruzione.
L’opera onettiana, da La vita breve in poi, si è andata via via ripiegando su se stessa, gli scenari si sono mano a mano ridotti e cosí pure il numero dei personaggi; i miti compresi nello spazio di Santa Maria sono divenuti sequenze ripetitive, di esasperata e dolorosa intensità, presenti più volte nello stesso testo; ma anche in altri del ciclo sanmariano. Stupefacente organicità di un’opera che sopravvive al frammentarismo che la caratterizza, dove le storie si compongono e si disgregano lungo gli anni della costruzione dell’opera stessa. Lavoro di intarsio in cui i frammenti di storie trovano il proprio tempo e il proprio spazio in testi separati l’uno dall’altro da lunghi anni di scrittura.
Un epilogo bellissimo e doloroso, frammentato tra lettere confuse, ma dalle quali sorge l’ombra definitiva che ricopre Santa Maria.
Un’ultima nota intima. Provo solitudine e mi sento in compagnia dopo aver chiuso l’opera conclusiva di Onetti. Sono sensazioni forti e illogiche se affiancate. Io ne sento la forza, ma non l’illogicità. Onetti avrebbe descritto in modo meraviglioso la coesistenza nella carne di sensazioni che la ragione vorrebbe inconciliabili. E saper questo mi rende felice.