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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Poiché ero carne – Edward Dalhberg

Poiche ero carne

POICHÉ ERO CARNE
Edward Dahlberg
Traduzione di J. Rodolfo Wilcock
Adelphi 1988 

Libro del 1959, scritto da Edward Dahlberg, americano del midwest, di Kansas City, a dispetto del nome. Libro strano, poco americano eppure americanissimo. Libro ambiguo, che sfugge a una presa sicura. Libro saponetta o argilloso, dipende, o entrambi, non so spiegarvi meglio, ma un libro può essere sia saponetta che argilloso, senza dubbio. Molto particolare nel panorama americano, disallineato pur raccontando ancora una volta, l’ennesima volta, “una storia americana”, in questo caso la propria storia, visto che la voce narrante è lo stesso Edward Dahlberg, ma non per questo non meno immaginaria di un qualsiasi altro romanzo.

Autore che ama l’ambiguità, mi pare si possa dire di Edward Dahlberg, e del rendersi ambiguo, nello stile, nella storia, nei personaggi, fa il suo tratto personale.

La storia è la sua propria storia, reale o romanzata o completamente fantasiosa che sia non importa, e ancor più è la storia di sua madre, che il padre non c’era ne c’era mai stato. Donna ebrea a Kansas City nei primi del Novecento, quando la città era ancora un luogo quasi di frontiera (non che adesso Kansas City, quella in Kansas o la dirimpettaia in Missouri siano particolarmente moderne) che per sopravvivere si inventa donna-barbiere, come poche altre ce n’erano e quelle poche, tagliavano pure barba e capelli ma principalmente si dedicavano al piacere maschile di altro genere.  Lei no, non era né una prostituta e neppure una che saltava di letto in letto, ma una piccola e povera donna con un figlio da trascinarsi dietro che cercava di campare e dopo essere riuscita a campare sognava il matrimonio, la famiglia, il piccolo grande sogno dell’umanità dolente.

Tutto il racconto ruota intorno a questa figura di madre, al tempo amata e distante, di modi antichi e passioni sanguigne, una piccola donna agguerrita e fragile, ignorante e limitata, grossolana e sincera, spietata perfino col figlio nella sua animalesca ingenuità.
Grottescamente tragica, in breve, come la vita del piccolo Edward Dalhberg, sballottato dagli eventi e soprattutto dai personaggi improbabili con i quali la madre si accompagna, mezzi truffatori e mezzi fanfaroni, poveri cristi rimbecilliti, fino ad essere spedito prima alla scuola cattolica, lui ebreo, poi all’orfanotrofio, per poi far ritorno anni dopo.

Il racconto saltabecca di avventura in avventura di questa donna goffa e ringhiosa in un microcosmo polveroso e cialtrone tipico del midwest americano fatto di botteghe, manierismi e bigotteria di facciata per poi, girando pagina, sbracare in sudore stantio, sesso bovino e truffe da baraccone. È così Poiché ero carne, un grande circo paesano di costumi rappezzati, piccole e grandi miserie e uomini e donne al pascolo che si prendono, si lasciano, commentano, ponderano, sognano, berciano, mentono spudoratamente, si pestano i piedi, strepitano, si disperano, tutto per niente, solo perché così è come vanno le cose, e così andranno sempre. Non c’è un bene o un male, solo un così è.

Dahlberg gigioneggia, usa il sarcasmo con mano pesante e sparge grossolanità in ogni angolo, per poi, ecco una delle grandi ambiguità o spiazzamenti, intercalare regolarmente, quasi insistentemente, con una frequenza anomala in generale e inconcepibile per un americano, con citazioni e massime dai classici, frasi, motti e sapienza di antichi romani e greci si accavallano a ogni pagina al grottesco della storia creando una distonia cacofonica talmente lancinante da diventare assurda, assurdamente ambigua, assurdamente ricercata e potente.

Un brano, parla Dalhberg e il pensiero procede come una carrozza a tre ruote.

Che potevo fare? Volevo essere un pensatore… ma non avevo pensieri. Ammettendo che fossi andato all’Università del Missouri, come a volte progettavo di fare, che ci avrei imparato? Come osserva Epitteto, sarei magari stato in grado di risolvere i sillogismi di Aristippo, ma quale vantaggio ne avrei ricavato? Forse la conoscenza di un teorema mi avrebbe insegnato a camminare, a parlare, ad accarezzare una donna o a capire un fiume? Uno può imparare, da Lewis e da Clark, che il Missouri fa crescere pioppi, lecci, cipressi, castani, querce, eppure essere pigro. Che cosa ci fa tremare, che cosa dilata i nostri affetti? Questo lo avrei scoperto molto più avanti negli anni, ma siccome stavo sempre scendendo nella tomba o uscendone, si trattava di una sapienza moritura, da riesaminare e rivivere continuamente.

Per questo dico che Dalhberg è scrittore assai particolare, perché ha forzato quanto più poteva uno stile antiamericano, ma con quell’entusiasmo e quella pedissequa determinazione che solo un americano riesce ad avere.

Libro di grandi contrasti, quindi, Poiché ero carne, una nota fuori scala nella letteratura americana, ma anche un’opera straordinariamente originale, una letteratura da pionieri, direi, da praterie letterarie del midwest e da bigotti goderecci.

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Questa voce è stata pubblicata il 28 settembre 2013 da in Adelphi, Autori, Dalhberg, Edward, Editori con tag , , .

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