«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
AL LIMITE BOSCHIVO
Thomas Bernhard
Traduzione di Enza Gini
Guanda 2012
Libretto piccolo di tre racconti in puro stile bernhardiano, ottimo sia per un primo assaggio della gelida lucidità e dell’immenso talento di Thomas Bernhard, sia per i devoti anzi i drogati, i plasmati, i Bernhand-dipendenti, come me, in crisi di astinenza dalla prosa del Maestro.
Bernhard, sto ripetetendo cose già dette molte volte in modo migliore di come le riesco a dire io, è un genio oscuro, fosco, è una lama di ghiaccio che penetra nella carne molliccia dei lettori e li seziona, lungo i meridiani e i paralleli, dall’ano al cervello e poi fa a fette il tronco, la pancia e l’inguine. Forse chi lo dice meglio di me usa immagini un poco più sfumate delle mie, magari senza pestare sul sanguinolento, ma tant’è, ci siamo capiti lo stesso.
Perché, vedete, per come la vedo io, la prosa di Bernhard ha qualcosa di misterioso, sempre. Ha questo effetto di gelo che cala addosso con i suoi panorami notturni, o boschivi, o montagnosi; le sue parole, anche quando la scena è cittadina, sembrano sempre muoversi circospette in una selva alpina, tetra e ostile. Il suo stile, salvo diventare imperioso quando si scaglia contro la società austriaca o quando scaraventa addosso agli uomini il suo disgusto, è di una nitidezza assoluta, glabro, inumano, attraversato da una vena di follia silenziosa e inesprimibile. È uno stile di gelo.
Eppure, ed ecco la magia di Thomas Bernhard, ciò che ai miei occhi, ma non certo solo ai miei, lo rende immenso, con le sue storie, le sue parole, le sue ambientazioni, la sua ossessione per il male che cova nell’anima, la sua perversa crudeltà indotta, la sua inammissibile lucidità, è il fatto che sotto al ghiaccio prende a covare una brace, poi un fuoco, poi brucia di umanità rabbiosa, di vita che preme sulle pareti gelate, e così facendo, innescando questa miscela incomprensibile, esercita un richiamo del sangue e del cuore, riecheggia nel tempo, negli anni, attraversa i decenni e continua ad emettere quella nota bassa che non si spegne mai e per questo, in alcuni o molti, nei Bernhard-dipendenti, l’attrazione non cessa mai, non si spegne mai, cova di continuo, implacabile, fino a che non si cede un’altra volta, l’ennesima volta e mai l’ultima volta.
Io, ad esempio, ho ancora nelle orecchie l’eco de Il nipote di Wittgenstein, che fu il primo libro di Bernhard che lessi più di vent’anni fa, poi lessi tutto il resto, o quasi, qualcosa ancora è rimasto fuori, per fortuna, e anche durante i molti anni nei quali non lessi una sola sua riga, quell’eco non mi ha mai abbandonato. Per questo dico che la prosa di Bernhard è misteriosa, rituale, sciamanica quasi.
Dopo questa lunga divagazione torno a Al limite boschivo. Sono tre i racconti, Kulterer, L’italiano e Al limite boschivo. Molto simili, come molte delle opere di Bernhard lo sembrano, ma ognuno racchiude in sé una declinazione diversa della perfezione dell’arte del racconto. In ognuno si attraversa una selva, reale o metaforica, si segue il protagonista nei suoi dialoghi sotto l’ombra pesante delle fronde, si osserva il tormento interiore per la memoria del passato – il passato è sempre una coltre opprimente in Bernhard – che riemerge e viene narrato, faticosamente. Infine si giunge nel luogo, fisico o metaforico, nel quale fin dall’inizio, per un destino, una volontà o una condanna, era scritto si dovesse giungere e là avviene la frattura nella narrazione tormentata del passato, nel luogo catartico il solaio della memoria cede, travolgendo l’uomo, determinando una cesura.
Sono tre racconti senza emozione apparente, distaccati, algidi, austeri, tre racconti brevi senza entusiasmo, indifferenti. Ma bastano per innescare la grande magia di Thomas Bernhard.
Infine tornò ancora una volta in cella per prendere le proprie cose. Si assicurò di non aver dimenticato nulla, prese il pacco di carta e se ne andò. Nel cortile sentì il sorvegliante che picchiava un carcerato. Si allontanò il più in fretta possibile dal penitenziario verso la campagna che collinosa, bruna e grigia si annebbiava di disperazione.