«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
STORIA DEL PIANTO
Alan Pauls
Traduzione di Maria Nicola
Fazi 2009
Ultimo libro, nel senso dei disponibili in italiano, di Alan Pauls, dopo Storia dei capelli e Il passato, che conferma molte delle cose che già ho detto per gli altri, oltre a provare (tre indizi, si sa, costituiscono una prova) la passione di Pauls per i titoli tanto categorici quanto fuorvianti.
Storia del pianto non è la storia del pianto, quanto, in parte la storia di un piangere bambinesco, così come Storia dei capelli non era la storia dei capelli ma una storia dove comparivano alcuni tagli di capelli a far da cornice e Il passato non era un racconto sul passato dei protagonisti ma sull’amore tra di essi.
Alan Pauls, lo dicevo e lo ridico anche a costo di essere pedante, secondo la migliore e nobile tradizione letteraria argentina, bara al gioco, annebbia la visuale e conduce la danza con mosse ambigue.
Si conferma anche talento torrenziale nello scrivere sapendo costruire un racconto dal nulla, o quasi, e in questo Storia del pianto, ancor più che nei precedenti, non c’è una vera e propria intelaiatura della storia. È più un narrare per il piacere di narrare, il protagonista è un bambino di tredici anni del quale si racconta la vita di bambino, il rapporto con la madre e il padre, con il padre soprattutto, col quale, unico caso, riesce a piangere, in presenza del padre si abbandona a pianti sfrenati, perfino eccessivi, teatrali, olimpionici.
Il bambino racconta di sé, con distacco, lucidità, sarcasmo e una vena di cinismo smaliziato. È evidentemente e volutamente una voce fuori scala rispetto all’età anagrafica del protagonista, Pauls gioca sull’incoerenza del tredicenne che argomenta e narra con modi da adulto carico di passato e di disincanto.
Mi ha ricordato, e non so se sia una coincidenza, probabilmente lo è, la voce spiazzante che Salinger ha dato a Seymour Bloom bambino in Hapworth 16, 1924, il non-libro semiclandestino dell’ultimo racconto del grande autoesiliato della letteratura americana. Nel caso di Salinger le interpretazioni sono svariate, io propendo per l’aperta provocazione; nel caso di Pauls invece no, non c’è nulla di provocatorio, solo, credo, l’implicito divertimento (gli elegantoni l’avrebbero detto usando un francesismo, che io vi risparmio) dell’autore nell’inventarsi una vita descritta da un ragazzino ma facendolo parlare come un frequentatore di una bettola di Buenos Aires. A essere capaci, e Pauls lo è senza dubbio, l’effetto paradossale e la vena ironica sono garantiti.
Un esempio.
A volte parla di quel che lo ha fatto piangere, il venditore ambulante senza una gamba, la donna emiplegica che fuma con un solo lato della faccia, il compagno di banco che un pomeriggio. in pieno inverno, perde il minibus della scuola ed è costretto a farsi tutta la strada a piedi fino al tenebroso quartiere periferico dove abita. Ma il massimo, il culmine, lo spettacolo di gala della scena intima con suo padre è quando parla di sé, quando «si esprime», quando dice «che cos’ha». Lì, altro che bambino prodigio. Lì è campione olimpionico, semidio, l’ottava meraviglia. Da dove lo tiri fuori, questo talento, suo padre non lo sa. In realtà non cessa di domandarselo fin dal primo giorno, da quando per la prima volta lo vide piangere negli spogliatoi del circolo e gli domanda che cos’ha, quasi distrattamente, come se la serie di clausole del contratto di padre che qualche farabutto gli ha fatto firmare in un momento di incoscienza, nella penombra malsana di uno dei locali equivoci sotto gli archi della ferrovia di Palermo che senz’altro frequenta il sabato sera, quando lui, prostrato da un’angina, è costretto a passare il fine settimana nell’appartamento di Ortega y Gasset con sua madre, afflitto non solo dal bruciore delle placche infette, dalle tonsille infiammate e dalla febbre, ma anche dal disagio che si crea nell’intimità tesa, difficile, anzi, più che nell’intimità, nella coesistenza forzata, sotto uno stesso tetto, di due persone che si ignorano a vicenda, una perché, pur amando l’altra ed essendo disposta a tutto per lei, in realtà non ha la minima idea di cosa fare, l’altra perché non c’è minuto in cui non desideri essere da un’altra parte, con un’altra persona – come se il fatidico contratto prevedesse non solo il dovere di ricondurre la smorfia del pianto alla ragione invisibile che può esserne la causa, ma anche di domandare ai figli che cos’hanno quando la smorfia comincia a deformare il loro viso.
Fate un bel respiro, forza. È torrenziale, ve l’avevo detto. Se non reggete, non sopportate, non apprezzate i periodi lunghi una pagina, state alla larga da Pauls (e da molti argentini).
Storia del pianto è un libro che si legge sorridendo o anche ridacchiando, scritto benissimo, ma meno coinvolgente o urticante o suadente – le reazioni con gli argentini possono variare tra gli estremi, non è strano – dei due precedenti. Più semplice come storia, rimane di più sulla superficie del piacere estetico e musicale della lettura e meno penetra e avvinghia nella carne dei personaggi.
Alan Pauls penso che in ogni caso abbia fornito ampia dimostrazione di meritare sempre di essere letto.