«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IN TEMPI DI LUCE DECLINANTE
Eugen Ruse
Traduzione di Claudio Groff
Mondadori 2013
Libro dalla narrazione circolare. La storia attraversa quattro generazioni tedesche di Berlino Est, dal 1952 quando i bisnonni Wilhelm e Charlotte furono richiamati nella DDR dal Messico fino al 2001 quando il bisnipote Markus è un adolescente tedesco, europeo, moderno. Nel mezzo galleggiano le generazioni frantumate dalle sterzate della Storia, Kurt e Alexander, padre e figlio, l’ultimo a rimanere fedele al passato e il primo a fuggire nel futuro, entrambi però mai del tutto nel luogo e nel tempo che hanno scelto e nel quale cercano un senso che non sarà mai compiuto. C’è una faglia che corre tra queste generazioni frapponendosi tra rimpianto e speranza, inducendo uno smottamento nell’ordine delle cose che rompe il fluire del presente e lo spacca per sempre tra memoria e illusione, passato e futuro, radici e aspirazioni.
In tempi di luce declinante è un libro che può essere letto in due modi diversi o sovrapposti, fate voi come preferite: la storia di un’epoca, quella a cavallo tra la fine del blocco sovietico e l’avvento dell’Occidente, oppure come un libro generazionale, la storia del traslare nel tempo di passato-presente-futuro che i personaggi vivono. Per la prima generazione si spezza il futuro e vivono ancorati in un presente eternamente rivolto all’indietro. Per la quarta generazione è il passato a distaccarsi e scivolare velocemente nella memoria incerta. Ma per le seconda e la terza è il presente a frantumarsi in pezzi che si ricombinano incerti e dolorosamente, sempre a rischio di nuove fratture.
Per questo, per me, che tedesco non sono e quindi posso leggere solo con distacco gli avvenimenti storici della Germania Est, questo libro è un libro generazionale. È il libro del fluttuare nel tempo e tra le persone del senso di passato-presente-futuro. Visto così, In tempi di luce declinante assume un volto molto più ampio degli eventi raccontati e diventa un racconto con il suo carico di metafore e di echi. Diventa anche l’ennesima riproposizione di quello che scrisse Tomasi di Lampedusa:
Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.
Questo vale per Kurt e Alexander, i protagonisti delle generazioni di mezzo, anche se loro di illusioni ancora ne covano, ma ne finiscono schiacciati. Sono le generazioni disgraziate di Tomasi di Lampedusa, quelle a cavallo tra i vecchi tempi ed i nuovi, quelle collocate là dove la Storia svolta e che vivono gli eventi come una svolta nel senso della propria esistenza: resistere o fuggire, conservare o ricominciare, volgersi indietro o in avanti. Non sono più gli stessi, prima e dopo, ma non sono mai né solo quello che erano o solo quello che sono diventati, mentre per gli altri, per quelli o troppo vecchi o troppo giovani rispetto alla faglia, non è così; la svolta della Storia interrompe il loro futuro o annebbia il loro passato ma lascia intatto il loro presente.
Il libro scorre via facilmente, lo stile è semplice, poco ricercato, perfino un po’ piatto talvolta. È un narrare leggero quello di Eugen Ruge che alterna quadretti ironici e commoventi, scene corali e intime, voci diverse, sguardi diversi su una medesima situazione. Molto si svolge in famiglia, ristretta o allargata. Ruge ambienta le scene in anni diversi, molto prima della caduta del Muro, subito prima e subito dopo oppure più di dieci anni dopo, e sullo sfondo degli eventi innesta la pluralità di voci e modi di vedere. Il gioco del libro è proprio questo: la realtà del tempo è comune a tutti, ma ognuno la interpreta in modi diversi. Forse un poco stereotipati, talvolta ho percepito un effetto fumetto nei personaggi, a volte troppo caratteriali rimarcando bizzarrie. La pronuncia russa di Irina, la nonna, le frasi sconclusionate di Wilhelm, il bisnonno eroe della DDR, la petulanza di Charlotte, la bisnonna, i rapporti conflittuali padre-figlio di Kurt e Alexander, ho sentito in alcune pagine un calcare eccessivo della mano di Ruge, un’insistenza nello spingere sul grottesco o sul tormentato. Anche nello svolgimento della storia, fluida, scorrevole, ma con qualche sobbalzo di troppo, come se qualche volta Ruge non sapesse come proseguirla e quindi ricorresse all’escamotage di cambiare inquadratura, saltare avanti o indietro per introdurre un diversivo: il ricordo di un amore passato, una passeggiata in un bosco, una descrizione del villaggio siberiano e così via.
Capitemi bene, io sono lunatico e a volte puntiglioso, In tempi di luce declinante è un bel libro, senza dubbio. Però a me ha lasciato un desiderio non del tutto soddisfatto, come di un piacere che si era acceso ma si è spento troppo presto. O forse come un piacere che ricordava un libro simile e memorabile sperando di replicare quell’incanto. Non è avvenuto, ma forse è ingiusto dare la colpa a Eugen Ruge.
Ora vorrete sapere che libro fu questo predecessore così amato, vero?
È La torre di Uwe Tellkamp, anch’esso ambientato in Germania Est, a Dresda, poco prima della caduta del Muro. Lettura per me stupenda, nonostante sia ormai passato un certo tempo, mi è rimasto il sapore di quelle 1300 pagine che volarono via ipnotizzandomi e terminando troppo presto, quando il piacere ne avrebbe desiderate altrettante ancora da leggere.
In tempi di luce declinante non ha innescato la stessa reazione chimica, ma è comunque un libro che merita molto di essere letto.
Ehi, Cornelio Nepote, ascoltami, voglio solo avvisarti, forse perché stasera sono uno sporco romantico, comunque sia, sei sotto attacco, perciò beccati stù incipit è datato 22/12/2001 c’accumenza accussì:
Sono un vorace mangiatore di opere narrative non certo di De Quyncey e dell’oppio dell’assassino e compro libri e con minuzia le copio e poi me ne disfo come in preda al terrore di infettarmi di tubercolosi e la peste bubbonica(della disoccupazione e della mancanza d’orizzonti.) Probabile che siano esse, queste opere, ingegno della fantasia e dell’anima turbata a divorare me come la il leone, la jena, il coccodrillo,la vita, il capitalismo a spron battuto. A questo punto dovrei farmi la domanda diventata la solita domanda più che mai: Dietro quale copertina di libro stai scrivendo queste parole? Il presente che non so da quale parte inizia a divorare il mio corpo, forse è il libro che lessi per la prima volta in vita mia. Questa storia, forse, è iniziata soltanto a quel tempo.
Carissimo don Transit ch’aggio accentrare io con chistu libro co’ dei falci e martelli in copertina? Chista è roba di quel veteroanarchico cheguevariano in stato confusionale di 2000battute. Io come confessai in un impeto di sventata sincerità sono monarchico rivoluzionario. Io invoco il ritorno dei santissimi principi Borboni per togliermi il gusto di vestire camicia rossa e prenderli a pedate un’altra volta.
Però mi piace il vostro incipit, voi sapete quanto vi apprezzi, compare, e allora provo a rispondere per assonanza, intuendo e immaginando. A modo mio, insomma.
Dietro quale copertina scrivo? Dietro tutte quelle aperte e dietro la prossima che aprirò, perché non ci sta presente nelle parole scritte, solo passato, tutto il passato e il futuro, solo il prossimo, solo domani. Questo è quello che vedo. Quando non ci sarà un’altra copertina da aprire e dietro la quale pronunciare parole, anche parole di silenzio, intendetemi, che scrivere si può anche non scrivere, ma parlare, anche solo parole di silenzio non si può non fare, allora il tempo sarà finito e con lui anche la mia storia iniziata un giorno, dietro una copertina, senza che lo sapessi, che nessuno me l’aveva detto che quello sarebbe stato il tempo.
Cornelio Nepote
Addò tu si partute parte ce stà ‘na terra
Putite atterrà ‘e cuorpe d’e criature malati ‘e tumori. Putite dicere comme ha ditto chella zoccola ‘e ministro ca ‘o cancro se piglia pecché dint’a terra nosta tenimmo cattive abitudini alimentari.
‘Na vota, quantu tiempi è passato?, se diceve viene ‘o paese mio venneno ‘opane cafone ca è talmente bbuono e sapurite ca te lo puoi mangiare pure doppo ‘na settimana. Può pigli ‘o cuzzutiello e ce miette ‘e fasule scaurate cu nu filo d’olio e te cunszuole a vita toja.
Oppure, ‘o taglio a felle e ce faje ddoje bruscotte cu ‘e pummarulelle d’o pennielo:mamma mia d’o carmene pare niente, ma nun è overo ca è niente. Stà mappata ‘e camurriste e politici e autorità conniventi, omertosi e venduti(pe’ paura e p’e interesse di arricchimento); a vita nosta; ‘a vita di ognuno di noi è tutto cose; ‘a vita nosta è ‘a ragione d’a vita stessa.
‘A vita è tutto chello ca facimmo cu ‘o core, c’o sango, cu ll’anema e ‘a fatica d’e mmane: ‘e mmane, quanno se jett’o sango pecché nun se po’ campà, auseleano e parlano senza parole, quanno ‘e pparole nun significano chello ca vonno dicere.
Ma camurriste, politici e autorità marce e corrotte stanno in agguato pe’ approfittà pure p’o smaltimento d’e rifiuti: stà catena s’adda spezzà e distruggre ‘na vota e pe’ sempe:chesta è ‘a terra nosta, nosta pecché nun ne facimmo ‘na questione ‘e proprietà, ma sulamente ‘e vita. ‘A vita ‘e ognuno ‘e nuje.
Nuje. Nuje. Nuje.
Parole mai dette né scritte
Si può vincere un bacio spedito via etere che diventa una valanga perché vi si uniscono un infinità di labbra o un viaggio tra le stelle senza necessità fare il pieno o pagare il biglietto a un guidatore senza capo né coda. A me, immerso in questa cerchia di persone sempre in fuga ma perennemente in catene, è capitata una cosa del genere e in verità non credevo di ritornare. Era un concorso fatto di parole che ridevano. Ogni volta che ti svegliavi o ti addormentavi le parole sorridevano finché non giungevi alla stazione che si voleva raggiungere. Le parole avevano anche la capacità di essere talmente serie che spesso le vedevi piangere. Quello era il mondo delle parole che ridevano e piangevano e poi nei momenti un po’ cosi si facevano il solletico. Vinsi. Le parole mi si avvicinarono e camminammo insieme: che passeggiata. Vinsi una passeggiata che dura ancora adesso. Ultima cosa:dovreste conoscere il pianeta di adesso. Dentro questo pianeta ci sono un infinità di mondi, ma noi spesso, troppo spesso nemmeno li guardiamo, tanto meno li ascoltiamo, perché ascoltiamo chiacchiericci e rumori più rumorosi dei rumori di fondo.
Si parte sempre da una riva, anche un tornante di montagna. Appena una data nel grande lago del tempo e poi tuffarsi trascinati dalla fiume della vita. E raccontare. Un lembo, una spiaggia, un muro, una riva, uno scoglio, un sentiero adiacente. E raccontare. Un data come un ferma carte. Un giorno, un mese e un anno, partire ma anche rimanere. E raccontare. Scegliere le parole e farsi scegliere dalle frasi. Guardarsi in cagnesco. Azzannare, stracciare le vesti e le carni. Addentare. E, senza le trappole spuntate delle frasi fatte, raccontare. E sparire nelle parole per essere carne del racconto. La nascita la vita la morte. Il tutt’uno, l’amalgama, il condimento, buono o pessimo, poco importa. Anche se lo è eccome.