«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
GLI ATLANTICI
Niccolò Tucci
Garzanti 1968
[Libri dispersi]
Bene bene, iniziamo il 2014 con un capolavoro appena tradotto in Italia, del quale potete leggere di là, e un [libro disperso] che leggete di qua, l’accoppiata perfetta dal mio punto di vista. Amo gli uni e gli altri. Per i primi voi direte “Bella forza, le belle donne piacciono a tutti” e avete ragione, per i secondi invece a me piace quel profumo di polvere da scavatore di tombe che a forza di scavare tra terra e sassi, a volte riporta in luce un tesoro.
Gli atlantici non è un tesoro come altri della lista del [libri dispersi], è un’anforina, un monile non di grande pregio, una tavola apparecchiata, al massimo. Però anche quelle anticaglie hanno un valore, no?, i musei ne sono pieni e stanno lì in bella mostra a raccontare una storia dimenticata, una familiarità perduta oppure una superstizione che un tempo era presa molto seriamente. Ecco, in questo senso sono contento di avere scovato questo libro in uno scaffale dei fuori catalogo e immaginato che avesse una storia da raccontare che nessuno ascoltava più, ma che invece meritava di essere sentita ancora.
Gli scavatori di tombe mi capiranno, credo. Gli altri non lo so, forse sembra loro tutta una bizzarria o una snobberia o perfino una perdita di tempo. Chissà. Non ha molta importanza.
Leggo dal risvolto di copertina che Niccolò Tucci, nato nel 1908, aveva 60 anni quando fu pubblicato questo libro e la grande foto che lo ritrae nella quarta di copertina mostra un dandy vezzoso con giacca chiara, pochette e foulard di seta e una bella faccia da uomo maturo e snob con le rughe giuste al posto giusto, una calvizie adeguata e uno sguardo fermo che vi fissa da sopra una montatura di occhiali strepitosamente glamour. È una bella foto che già racconta molto del libro.
In più, sempre leggendo le note del risvolto, vengo a sapere che Tucci era un tipo particolare, bizzarro in effetti. Scriveva e aveva successo. Era emigrato a New York e divenuto cittadino americano. Quindi scriveva sia in italiano che in inglese. Ma, ecco la bizzarria, rifiutava le traduzioni dei propri libri. Vien da sorridere, eh? Ditemi voi quanti scrittori conoscete, magari odierni, che fanno una cosa del genere. Nessuno. Tucci lo faceva. E per questo esistono romanzi di Tucci in inglese ma non in italiano e poche opere in italiano.
Gli atlantici comparve nel 1968 dopo 12 anni dal precedente libro in italiano e per la prima volta Tucci concesse la possibilità di tradurlo.
Eh? Che storia! Scommetto che una storia così non l’avevate mai sentita, e nemmeno io l’avevo sentita e quindi ora capite perché mi si è accesa la lampadina quando l’ho letta.
Il quadro ora è abbastanza preciso e si riesce a intuire la sagoma di Tucci. Uno snob, un dandy, uno spirito aristocratico fuori dagli schemi, uno scrittore fondamentalmente tradizionalista eppure disallineato, certo non uno delle avanguardie sessantottine, ma per scelta e natura refrattario a qualunque genere o scuola o tendenza. Un esteta, insomma.
E così è Gli atlantici, un libro intriso di sfoggio estetico in forma di racconto ibrido, un po’ biografia e un po’ favola, un po’ romanzo e un po’ saggio, un po’ una cosa seria e un po’ uno scherzo, dove ognuno di questi confini si percepisce esserci ma non lo si distingue chiaramente.
La vicenda si svolge nella Lugano alto-borghese degli inizi del ‘900, residenza di industriali italiani ed esuli dell’aristocrazia russa e la voce narrante è un bambino, figlio di una famiglia il cui padre è, appunto, un industriale italiano originario della Puglia e la madre un’aristocratica russa divorziata.
La voce è immediatamente surreale e così rimane per tutto il libro. Il bambino parla come un adulto cinico e smaliziato e le vicende assumono tinte grottesche sullo sfondo dell’Europa che si avvicina alla Prima Guerra Mondiale. Tucci mescola sketch da cabaret con protagonista il bambino e i suoi fratelli e sorelle alla descrizione della società alto-borghese e profondamente contraddittoria di Lugano, le incomprensioni tra i genitori e i loro patimenti per la vicenda scandalosa del divorzio della madre. Tutto è ricoperto da una patina di allucinazione, una visione distorta dell’infanzia, quasi degenere, secondo l’idea che si possa vivere cercando di perpetuare un’eterna infanzia ma che ciò porti inevitabilmente all’assurdo.
È l’estetismo decadente di Dorian Gray riproposto in altra forma, la fanciullezza per la fanciullezza come valore assoluto e canone stilistico, che Tucci interpreta cinicamente, come forse inevitabile alla fine di un’epoca, la vigilia della Prima Guerra Mondiale nel libro, il 1968 nel suo tempo.
Inizia così Gli atlantici:
La mia prima persona fu dunque il mondo. Detto questo il mio primo volume di memorie è finito. Che altro posso aggiungere? Che l’esperienza fu piacevole? Ma questo è un fatto risaputo. Discendiamo tutti dal mondo, tutti siamo stati personalmente il sole la luna l’aria l’acqua, l’energia e la massa. Le difficoltà incominciano quando si è tutto, non si possiede nulla e non si ha niente da dire. Con chi parli e di che parli? E soprattutto come parli? Già il parlare ha come oggetto questa o quella cosa, perché la lingua si forma sull’esperienza, quindi sul malinteso. Quelli credono di insegnarti una cosa e tu ne impari un’altra. Le parole che usano son vecchie e ti richiamano alla mente quelle poche nozioni che hai e che invece di condurti a conquistare il nuovo ti fermano sempre più sul territorio vecchio. Quando cresci ti correggi, ma la prima impressione rimane e ti sposta gli strumenti del cervello. Non troppo, ma quel tanto che basta per cambiare direzione alla nave. Questo è un fatto gravissimo del quale parleremo per esteso più tardi.
Il primo link dove porta?
ooops! grazie, corretto