«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL PECCATO
Zachar Prilepin
Traduzione di Nicoletta Marcialis
Voland 2012
Erano quasi due anni che volevo leggere questo libro. Ne avevo sentito parlare prima che Voland lo traducesse come di uno dei migliori della nuova produzione letteraria russa, vincitore di un prestigioso premio (“il miglior libro degli ultimi dieci anni in Russia”) e, nonostante la mia immensa sfiducia nei premi letterari, ammetto che mi aveva ingolosito – dicevo: “se anche dicono balle come con i premi italiani, sempre scrittori russi sono, buon sangue non mente… spero”.
Poi però non era stato ancora tradotto, non sapevo quando sarebbe uscito e allora ne lessi un altro di Prilepin, il quale ha una biografia particolare essendo stato militare in Cecenia e ora è dichiaratamente ostile a Putin, entrambe le cose piuttosto rischiose, direi. Lessi Patologie e non mi piacque granché, lo stile di Prilepin non mi piacque granché, un po’ troppo muscolare per i miei gusti, uno stile spaccone mi sembrò.
In seguito me ne dimenticai e successe che lessi un altro giovane scrittore russo, Nicolai Lilin col suo celebrato e pure cinematografato Educazione Siberiana. Lo detestai abbastanza. Detestai quella messinscena, quella lingua artefatta e tutta la parafernalia col quale si è addobbato. Io sono così, ho un caratteraccio da orso marsicano. I “giovani scrittori russi”, e in particolar modo quelli con una biografia particolare, vite violente, scontri fisici e spacconate, diventarono una categoria sospetta, fondamentalmente antipatica e da guardare di sbieco con l’occhio sinistro, quello cattivo dei due.
In realtà, quel pensiero de “il miglior libro degli ultimi dieci anni in Russia” di Prilepin ancora strisciava tra i gangli e ogni tanto spuntava in superficie. Finché non ho visto in una vetrina Il peccato, ho realizzato che era lui e ho deciso che era giunto il momento di rilassarmi e dichiarare una tregua con i giovani scrittori russi dal passato turbolento.
Il peccato è un bel libro. Non credo sia “il miglior libro degli ultimi dieci anni in Russia”, che è una sparata pubblicitaria senza senso, ad esempio Lauro, che è successivo d’accordo, per me è di gran lunga più bello, però mi è piaciuto e mi è piaciuto parecchio lo stile di Prilepin, molto diverso da quel tono muscolare e spaccone di Patologie.
Qui, ne Il peccato, che sono racconti, con Prilepin stesso come protagonista, lo stile lo definirei attonito. Scrive con stile attonito. Direte: “Che diavolo sarebbe uno stile attonito?”, e mo’ ve lo spiego.
Avete presente l’espressione attonita di un volto? È una combinazione di espressioni, c’è la sorpresa, l’incredulità, la perplessità, il dubbio di non aver compreso bene, il timore che invece sia proprio così come sembra e infine un certo imbarazzo. È un cocktail variopinto l’espressione attonita.
Ecco, bene, lo stile attonito è lo stile di uno che scrive con espressione attonita e quindi traspone nel modo di raccontare tutto quel cocktail di espressioni, per cui il risultato è di raccontare delle vicende, in questo caso personali, e raccontarle bene, con passione e partecipazione, ma allo stesso tempo con questa faccia attonita di chi non ci crede del tutto ma teme che sia vero, è sorpreso che le cose sembrino essere andate il quel modo ma deve ammettere, con una punta di imbarazzo, che in effetti, non si può negare che siano andate proprio in quel modo. Ecco, questo è lo stile attonito, tutto il contrario dello stile muscolare e spaccone e molto difficile da ottenere perché quando uno è attonito, tendenzialmente, aspetta prima di mettersi a raccontare dei fatti personali.
Invece Prilepin non aspetta e scrive, scrive bene, molto bene. Il risultato sono dei racconti un po’ strampalati ma belli, molto belli.
Sono quasi tutti racconti che racchiudono un episodio o un frammento di vita personale (inventata o no, non ha nessuna importanza). Vite marginali, da poveraccio, Prilepin si descrive come un poveraccio, mezzo sbandato, con lavoretti saltuari, relazioni borderline e una trama di violenza urbana tipica da periferie. Assomiglia, in teoria, come miscela, ai tipici romanzi americani preconfezionati dei telescrittori attuali (non tutti, sapete – lo sapete? – che ora mi sono un po’ riconciliato con loro): droga, sesso, alcool, risse e una sequenza di episodi senza soluzione di continuità. La differenza sostanziale, tra Prilepin e i telescrittori increativi yankee è che Prilepin sa scrivere con uno stile, lo stile attonito, appunto, quegli altri non sanno scrivere se non ricalcando con la carta carbone (che metafora vintage, la carta carbone, magari c’è pure qualcuno che legge che manco l’ha mai vista la carta carbone e penserà che sono un obsoleto).
Per questo, i racconti di Prilepin non sono soltanto una sequenza di episodi, ma un resoconto, poco verosimile ma forse vero di uno che con la faccia attonita sta raccontando quello che gli è successo e non sa manco lui se quello che ricorda è vero, se ha le allucinazioni, se era drogato o ubriaco o se invece gli è veramente capitato di vivere una cosa così strampalata.
Bravo Zachar Prilepin.
Un pezzetto, che ora sarete curiosi di vedere questo tanto decantato stile attonito:
Ero andato a trovare un tale che conoscevo, un coglione. Da dirci non avevamo quasi nulla, la televisione era accesa, lui moriva dalla voglia di strapparsi alla noia, io mi ero steso sulla sua branda puzzolente.
Eravamo al quarto piano di una casa dello studente.
A un tratto, dalla porta socchiusa, coperta di macchie e segni di pedate, entrò un gattino macilento e rognoso, che sembrava appena uscito da un cassonetto dell’immondizia.
Il deficiente aveva trovato come distrarsi.
– Ehi, piscialetto – salutò la bestiola che si era accucciata con un flebile miagolio. La prese in mano, osservandola con disgusto.
Avevamo appena fumato, sputacchiando nell’umidità autunnale, e la finestra era ancora aperta.
Quando distolsi lo sguardo dalla televisione il gattino già penzolava nel vuoto, aggrappato con le zampe al davanzale, le unghie ricurve colme della vernice bianca distaccatasi dal legno graffiato. La cosa più straordinaria era come la bestiola scivolasse nel non-essere felino senza emettere suono.
Mi venne in mente, del tutto a sproposito, che secondo un poeta all’altromondo c’è puzza di topo. Al nostro gattino sarebbe piaciuto, nel caso. Ma pare che là odori non ce n’è proprio.
Il mio deficiente lo fissava incantato.
Attonito. Geniale.
Io credo che lo stile “attonito”, come lo chiama lei, comunque unico, che per me è un tono distaccato, quasi ghiacciato, nudo e duro (ricorda il paesaggio della steppa siberiana, il terreno duro e arido e impenetrabile anche d’estate, se l’estate là esiste) appartiene a quei genuini scrittori “russi” che io preferisco, quelli che in quel terreno ghiacciato riescono eccezzionalmente a penetrare e a scoprire che anche sotto quella scorza c’è della vita, da testimoniare.
le volevo suggerire Elèna Chizhòva; il tempo delle donne
È passato parecchio tempo, non ricordo bene cosa mi avesse ispirato l’attonito dello “stile attonito”, ma senz’altro aveva qualcosa a che fare con l’espressione attonita, quindi non solo un certo distacco e nudità di forme, che sono proprie di un’espressione attonita in effetti, e quindi anche di uno stile attonito, ma in più doveva esserci una dose di incredulità nel modo di rappresentare le scene o i dialoghi o entrambi. Senza incredulità non mi viene da pensare a uno stile attonito. Lei ci ha ritrovato una dose di incredulità?
Per Elèna Chizhòva, che ho impiegato un po’ a ritrovare perché viene riportata come Cizova, Chizova, Cizhova etc. tutte le combinazioni con e senza h, grazie per il suggerimento. Il libro è fuori catalogo, da quel che vedo, ma nell’usato immagino si possa trovare.