«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
KAMCHATKA
Marcelo Figueras
Traduzione di Gina Maneri
L’asino d’oro 2014
Mi sarei mai accorto di questo libro senza l’aiuto di un buon consiglio? Probabilmente no, L’asino d’oro è una piccola casa editrice che non conoscevo, così come Marcelo Figueras è sconosciuto da noi; sicuramente di Kamchatka se ne parlerà poco e non ha la minima possibilità di venire citato dai comitati di personalità interpellate in una delle comiche Classifiche dei migliori libri dell’anno, come la mia Teoria S.I.C. profetizza. Quindi, Kamchatka è un esempio perfetto di gran bel libro molto, molto-molto migliore della media dei libri che verranno pubblicati nel 2014, ma che verrà ignorato dal pubblico, perché non ne conoscerà l’esistenza, e dalla critica, perché ormai semi-scomparsa e sostituita da lanciatori professionisti di lanci pubblicitari. Su questo mi ci gioco quello che volete.
La banale trovata retorica del cominciare con “Mi sarei mai accorto” sottende chiaramente, anzi appende, come panni stesi ad asciugare che sbandierano in bella vista sul passeggio del corso sottostante, sottende o appende una domanda cruciale, non tanto per le sorti di questo libro o di qualunque altra cosa di qualche importanza, ma per le sorti di questo commento che, senza esplicitare tale domanda, la quale forse voi avreste voluto pormi spontaneamente ma in questo preciso istante non potete farlo, forse non ve ne importa niente ma, procedendo di nessuna importanza in nessuna importanza, non importa nemmeno a me conoscere la realtà celata dall’ipotesi e quindi esplicito la domanda altrimenti non saprei come condurre questo commento senza sbananarmi contro un guard-rail.
La domanda è codesta: Chi mi/ti ha suggerito Kamchatka?
Me l’ha suggerito Gina Maneri, che di Kamchatka è autrice dell’ottima traduzione.
“Ah!”
“Quindi tu, l’autarchico, il solitario, il disallineato, l’asociale, il rabdomante da libreria, il palpeggiatore di libri, quello che disprezza gli inserti culturali dei quotidiani, disdegna i blog letterari, se ne fotte delle trasmissioni radiofoniche che discutono di libri e ha destinato alla discarica il televisore, snobba le presentazioni in libreria e si annoia disperatamente ai festival letterari, colui che non chiede mai suggerimenti, ridicolizza gli uffici stampa, dedica un pensiero crudele agli editori mentre fa colazione e partorisce teorie sulla inconsistenza delle classifiche prodotte da illustrissimi intellettuali si fa imboccare dalla traduttrice del libro?” – “Ma come? Allora non sei né così indipendente come dici e neppure così stronzo come sembri!”
Ringrazio il cortese pubblico per la domanda perché mi dà agio di spiegare meglio alcuni dettagli diabolici e sfatare dicerie sul mio conto messe in giro dalle malelingue. Innanzitutto confermo di essere un po’ stronzo, giusto per non instillare false speranze o romanticherie prive di fondamento. Poi però dico anche che non è vero per niente che io non ascolto suggerimenti o che li ascolto solo da chi dimostra di essere privo di teorici conflitti d interesse da almeno tre generazioni. Io ascolto (quasi) tutti i suggerimenti perché non si vive senza sentire cosa ne pensano gli altri e senza farsi aiutare un po’, poi valuto due cose: uno) se il suggerimento suona onesto e sincero; due) se il suggerimento innesca in me una scintilla di interesse.
Come vedete in nessuna delle due condizioni si prescrivono caratteristiche curricolari del suggeritore.
Ecco quindi che il suggerimento di Gina Maneri per me aveva entrambe le caratteristiche. Vi dico di più, ascolto pure suggerimenti che mi arrivano direttamente dagli editori (!!!), da qualche editore, editori un po’ particolari a dire il vero, sempre che soddisfino le due condizioni sopraddette.
I risultati sono che Kamchatka è un libro che a me è piaciuto parecchio e Marcelo Figueras un ottimo scrittore argentino contemporaneo; il mio cuore palpita per Valeria Luiselli e prossimamente vi parlerò di un libro tra i più fondamentali e imprescindibili che abbia mai letto.
Basta essere onesti e sinceri quando si offrono consigli, tutto qua. C’è chi lo capisce e chi no. Il resto vien da sé.
Ora Kamchatka. Vi ho già detto che mi è molto piaciuto, ma cerco di dire meglio.
Kamchatka non è un capolavoro (l’attuale abuso del termine “capolavoro” è uno dei sintomi più eclatanti dello stato comatoso della lettura e della cultura; chi pronuncia la parola “capolavoro” più di una volta all’anno senza fornire, con l’umiltà che deriva dal timore di strafare, ampie e circostanziate giustificazioni riguardo l’assennatezza di tale giudizio è un pescivendolo da mercato rionale, senza offesa per i pescivendoli). Kamchatka forse non è neppure un grande libro intendendo la grandezza come giudizio sull’opera d’arte, l’arte del romanzo, la miscela delle parole e delle frasi che si fa sinuosa come il marmo reso volto e pelle oppure crudele come le pennellate violente di un colorista. Marcelo Figueras non è Onetti (nessuno è Onetti) e neppure Cortázar o Sabato e nemmeno Bioy-Casares. Può essere accostato ad Alan Pauls, i due sono coetanei, entrambi bravissimi scrittori argentini contemporanei ed entrambi molto-molto migliori della media degli scrittori attuali, anche molti di quelli attualmente famosi; infine, volendo tirare un po’ il paragone, si può accostare anche a Tabucchi e a Lobo Antunes.
Ma allora, perché a me Kamchatka è così tanto piaciuto? Perché è una storia bellissima; non un grande libro, ma una storia bellissima che allo stesso tempo fa divertire e fa commuovere e, per me, le storie che riescono, allo stesso tempo, a far ridere e far piangere sono storie bellissime.
E per riuscirci con me che sono un po’ stronzo, bisogna che siano oneste, o sia bravo lo scrittore a farla sembrare tale, e che dalla storia traspiri, anzi che respiri, con il suono di un mantice, l’onestà dello scrittore mentre raccontava una storia onesta che fa ridere e fa piangere e se è così, che quindi io, pur essendo un po’ stronzo, rido e mi commuovo, allora dico che è una storia bellissima.
Non vi spiego il perché del titolo, vi dico solo che ha a che fare col Risiko (o una sua versione argentina molto simile). Vi dico invece qualcosa sulla storia bellissima.
I protagonisti sono una famiglia; madre, padre e i due figli, maschi, di dieci e cinque anni. Vivono a Buenos Aires negli anni ’70 e i genitori, il padre avvocato, la madre professoressa universitaria sono di sinistra, militanti per i diritti civili e le riforme, peronisti della fazione progressista del caos peronista di quegli anni. Nel 1976 avviene il golpe militare e inizia la persecuzione degli oppositori da parte della polizia. Le violenze e i sequestri e gli assassini. Madre e padre vengono privati del lavoro, devono nascondersi, la famiglia entra in semi-clandestinità per proteggersi. I genitori saranno due tra le migliaia di desaparecidos argentini. Questo è il contesto tragico e lo si sa fin da subito.
La storia però non ha toni tragici, anzi vi ho detto che fa ridere, è divertente perché è narrata in prima persona dal bambino di dieci anni ed è un’avventura: l’avventurosa vita di questa famiglia, molto unita e un po’ strampalata, che dovrà fare cose strane agli occhi del bambino, il quale cambierà scuola, perderà gli amici, traslocherà in fretta e furia in una casa isolata e anonima portandosi dietro solo poche cose, e vivrà il contrasto della ricerca di una normalità famigliare in una situazione così precaria come può essere la clandestinità.
Figueras adotta uno stratagemma narrativo già usato molte volte: quello della rappresentazione assurda fanciullesca, dando al bambino narratore connotati surreali per la capacità descrittiva e immaginativa improbabili. Da qui la comicità di fondo del racconto. Si possono trovare molti paragoni. Il più evidente, almeno per me, è con la saga della famiglia Glass di Salinger. Figueras non ha l’arte sublime di stupire che possiede Salinger , ma la genialità perversa e ingenua dei due fratellini, e in particolare del minore, quello di cinque anni, il Nano (mai nominato altro che in questo modo), ricorda la genialità perversa e ingenua dei piccoli di casa Glass. C’è da divertirsi con le idiosincrasie del Nano; è rappresentato come una caricatura ed è un personaggio strepitosamente demenziale per dolcezza ed eccentricità.
Altri paragoni si possono fare con Gli atlantici di Niccolò Tucci (bizzarro come questo libro, che avevo sottovalutato, torni spesso come metro di riferimento) e anche con alcuni racconti di Dieci dicembre di George Saunders, anche se nel primo caso è più forte l’estetismo decadente e nel secondo caso la sfumatura cinica del caratterista. In Figueras non c’è né estetismo né cinismo.
Un pezzo dello strepitosissimo Nano:
Quando voltammo la testa, il Nano non c’era più. Vedevamo il suo letto sottosopra per i salti, ma di mio fratello non c’era traccia. Era come se fosse rimasto vittima di una combustione spontanea, come la contessa Cornelia Brandi di Cesena nei primi anni del XVIII secolo: era andata a fuoco da sola, puf, arsa dal proprio calore interno, e si era consumata in men che non si dica. Mi chiesi se fosse quello il motivo per cui ai bambini è proibito bere vino.
Ma il Nano non si era disintegrato. Fece capolino dall’altro lato, nello spazio tra il muro e il letto che tutti quei salti avevano spostato. Si grattava la testa nel punto che aveva battuto e sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Evidentemente io e Lucas lo stavamo guardando con un’espressione comica, un misto di preoccupazione e stupore, perché subito sorrise e disse sono caduto. Dopo di che risalì sul letto e si rimise a saltare mentre concludeva urlando a squarciagola la propria personalissima versione dell’Inno: O curriemos con Gloria Muñiz, o curriemos con Gloria Muñiz…
In quell’istante arrivarono di corsa papà e mamma, allarmati dal botto. Lo spettacolo li lasciò senza parole. Io spiegai che il Nano era ubriaco, papà domandò cosa significava il verbo curriere, la mamma volle sapere chi era Gloria Muñiz (sulla guida del telefono c’era una Gladys, ma nessuna Gloria) e finimmo per cantare l’Inno tutti insieme, ridendo come matti, con la mamma che copriva il Nano di baci e gli spiegava che l’Inno dice o juremos con gloria morir e papà che la interrompe e le dice, lascia stare, questa versione è geniale, e ha ragione, penso io tra me e me, a cinque anni è meglio o curriemos con Gloria Muñiz che o juremos con gloria morir, perché a cinque anni si è troppo piccoli per capire certe cose.
L’epilogo è annunciato e più volte anticipato. Inizia con un dialogo tra il padre e la madre:
«Sai l’unica cosa di cui ho paura? Di non rivederli più» disse la mamma, e poi fece uno strano rumore con la gola.
È l’amore materno, più grande e importante di ogni altra cosa, il sentimento intimo e viscerale quello che Marcelo Figueras sceglie per dare un senso al ricordo di un’epoca di barbarie e di efferatezze commesse per il potere, per avidità e per disumanità.
Finisce con «Kamchatka», l’ultimo saluto e l’ultima risorsa quando si è costretti a resistere e difendersi, finisce nell’intimità dei ricordi che cambiano e si adattano a una piccola storia bellissima che fa ridere e fa commuovere. La consiglio a tutti.
L’ho finito, e sono tornata come promesso, anche perché il giudizio finale conferma, e se possibile esalta, quello di metà libro.
Ho capito meglio anche in che senso il paragone con i Glass (che stilisticamente però continuo a non vedere, e anche tematicamente come relazione, pur se la figura della madre effettivamente ha un che della nevrosi con cui viene descritta la famiglia Glass); e sicuramente nella seconda parte la questione calviniana, diciamo così, viene un po’ meno.
Alla fine, però, continuo a pensare che il punto di vista non sia solo o non tanto quello del ragazzino, perché gli inserti quasi saggistici del narratore adulto sono vincolanti e fondamentali. In questo, il paragone più vicino mi pare quello con Un sacchetto di biglie di Joseph Joffo del quale, se non si conosce, consiglio a questo punto caldamente la lettura!
(Sulla lettura tecnica (ma non è necessario darmi del lei, non son così vecchia!), io credo che ogni lettura sia tecnica, perché scrivere (bene) è tecnica, e dunque la lettura non può prescindere da un approccio anche stilistico, linguistico, strutturale, più o meno consapevole).
Segno Joseph Joffo che non conosco e ringrazio per il suggerimento.
Sulla faccenda della lettura tecnica o meno o “quanto tecnica?” mi sa che potremo discuterne all’infinito, perché la lettura non è riducibile a una singola questione.
Capisco bene cosa intendi e certo hai ragione, ma io alzo barricate perché ho un principio sovrano da difendere: ognuno, sempre, legge il proprio libro.
ciao, grazie
marco
Lo sto leggendo ora, sono circa a metà, e, anche se a tratti si muove sul filo del “troppo”, per ora non ha mai sbavato al di là e resta interessante. In realtà secondo me la narrazione non ha solo il punto di vista del protagonista, ma gioca sul doppio piano, adulto che ricorda, occhi di bambino. Si crea così un effetto di straniamento che è originale, rispetto al tradizionale effetto Kim (penso a Kipling) o Pin (penso al nostro Calvino), perché, appunto, la focalizzazione oscilla. E se da un lato questo crea un modo di raccontare particolarmente adatto a questa storia, dall’altro questo doppio punto di vista secondo me è gestito con qualche errore. Non ho visto il film, mi chiedo se il doppio piano temporale ci fosse anche nella sceneggiatura, e spiegherebbe molte cose.
Comunque, per ora, promosso – anche, forse, per i miei alunni. Ma, se non disturbo, tornerei a dialogare quando l’ho finito!
Lo sguardo fanciullesco, a partire dal titolo stesso, l’ho trovato ottimamente interpretato.
Né Kim né Pin, secondo me, al più un’eco dei fratelli Glass di Salinger, come in Safran Foer.
Buona seconda metà libro
Dei Glass vedo poco, almeno come uso della focalizzazione; di Calvino, viceversa, proprio per il doppio registro, qualcosa forse vedo…
Però convengo che sia meglio aspettare la fine.
Dei Glass io vedo molto nel fratellino (non ricordo il nome ora), quella miscela di genialità stupefacente e ingenuità fanciullesca che diventa surreale e crea il personaggio. Salinger è stato il maestro nel disegnare bambini del genere, dopo di lui penso sia inevitabile il paragone.
Calvino purtroppo non è un mio riferimento, non lo amo, provo a leggerlo periodicamente, ma non c’è niente da fare: bravissimo, perfetto ma un ingegnere della parola, non un artista, per come giudico io.
Ma noi credo leggiamo in modo diverso.
Lei mi pare faccia una lettura molto tecnica del teso, io per nulla
E’ un libro “potente”, di quelli destinati a restare appiccicato alla storia di crescita individuale di coloro che hanno avuto la fortuna di leggerlo
se non ricordo male c’era un film argentino con lo stesso titolo e argomento…
Sì esatto, leggo dalla nota biografica: “Prima di essere un romanzo, Kamchatka nasce come sceneggiatura dell’omonimo film di Marcelo Piñeyro, che nel 2003 ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura al Festival del cinema dell’Avana.”
Mi sono accorta di aver scritto Kamchatka con una “s” di troppo, diciamo che l’ho scritta alla tedesca…:-))
Concordo, Kamschatka è un libro bellissimo che diverte fino alle lacrime e commuove fono alle lacrime, e Gina è riuscita a rendere meravigliosamente questa bellezza. E non è da tutti riuscire a fare questo, sia nella propria lingua, sia in una traduzione. Quindi bravi entrambi! Ora il libro sta circolando tra figlie, fidanzati delle figlie, amiche, ecc. Per quel che mi riguarda lo sto promuovendo con ardore! Kamschatka è bello perché è spontaneo, perché è proprio la narrazione di un bambino e i bambini sono quasi sempre acuti e divertenti. A me ha un po’ ricordato la Vita è bella di Benigni e un po’ gli articoli spassosi e semiseri di Claudia de Lillo detta Elasti, quando parla dei suoi hobbit, alias 3 figli maschi e ogni tanto usa anche lei il termine “il nano”. Piani diversi d’accordo, però ho percepito quello spirito lì. Ora non ho il libro sottomano, proprio perché prestato, ma il San Tiddio del Nano è geniale, e di trovate come questa ce ne sono tante. Figueras racconta con semplicità e in modo lieve la crudeltà della dittatura argentina, senza mai accennare direttamente alla politica o alla violenza. E il sentimento di rabbia che spesso affiora nel piccolo protagonista per aver dovuto abbandonare in fretta e furia la sua casa, la sua scuola, i suoi compagni, i pomeriggi del giovedì col suo amico del cuore e la cena a base di squisite polpette cucinate dalla mamma dell’amico, cede il passo al sentimento di grande amore che pervade Harry perché, come scrive alla fine, e questa frase la posso virgolettare essendomela trascritta, “l’amore è l’unica cosa reale, il faro, il resto è oscurità.” Verissimo.
condivido tutto, libro che anche io mi sento di consigliare a chiunque, indistintamente