«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL BARILE MAGICO
Bernard Malamud
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Minimum Fax 2003
Dopo il meraviglioso Il commesso, ritorno a Malamud per cercare quello che so che Malamud mi regalerà ancora una volta: la leggerezza. Quel particolare tipo di leggerezza che solo la parola può conservare anche quando si posa su vite misere, spesso tragiche, piccole saghe famigliari che si aprono e si chiudono dietro delle tendine luride, una bottega squallida e un futuro che non sorride mai. Malamud è magistrale nell’arte della leggerezza. È un’arte riservata a pochissimi, più fragile e più trasparente di un velo di cristallo, da cantare con una voce che non può mai tremare o incespicare e, soprattutto sopravvive solo nella luce di un sorriso caldo, umano, il sorriso di chi non solo immagina e racconta, ma racconta e si siede anch’egli in quel bugigattolo, nella luce grigia che filtra dalle tendine luride, mangiando la zuppa acquosa che altro non c’è.
C’è una grande arte del raccontare in Malamud, qualcosa che non si può spiegare fino in fondo senza ricorrere alla parola magia.
Il barile magico è una raccolta di racconti pubblicata nel 1958 e premiato con il National Book Award nel 1959. Torna l’atmosfera de Il commesso, che precede proprio Il barile magico: stesse bottegucce di droghiere o di calzolaio, stessi angoli di una New York misera, stesse vicende che si compiono in spazi ristretti, piccole vite che sembrano trovare un compimento in parabole ridottissime, mai solari, mai ritratte in piena luce, vite adagiate come cenci.
Sono racconti questa volta quindi ancora più raggomitolati in se stessi del romanzo, ugualmente cesellati dalla mano magica di Malamud. Diversamente da Il commesso, proprio perché sono racconti, lo sguardo si sposta da una scena all’altra, da un angolo a un altro, conservando sempre la stessa arte, la stessa voce e lo stesso sorriso.
Malamud non cerca mai in modo esplicito di sorprendere, di emozionare, di arpionare le corde dell’anima. Lascia che siano i suoi racconti e i suoi personaggi a sciogliersi nel lettore e quel che sarà sarà, potranno filtrare, essere sciacquati via, permearsi o evaporare lentamente. Non importa. Malamud non forza mai la mano, non cerca mai di accompagnare o strattonare il suo lettore o di consegnargli una emozione.
Anche questo fa parte dell’arte sublime della leggerezza.
Malamud era figlio di un droghiere ed era ebreo. I due ingredienti di tutte le sue storie, spesso ambientate in bottegucce e spesso proprio di droghieri, con i personaggi usciti dal popolino ebreo di New York, che si affannano senza tregua né possibilità di successo in miseri angoli sporchi della grande città che rimane sempre sullo sfondo, mai attraversata, mai vissuta ma incombente, come una scura foresta impenetrabile. Eppure, ed ecco un’altra sfaccettatura della sua grandezza, pur facendo nascere le storie su elementi autobiografici, Malamud sorvola la propria esperienza senza far trapelare la propria voce o lasciare la propria impronta. Parte da sé per liberare le sue storie, le sue parole e la sua meravigliosa leggerezza.
Un maestro.
Scelgo un brano da farvi leggere e un po’ mi spiace che coincida proprio con quello citato da Jhumpa Lahiri nella prefazione. Non mi piace ricalcare, la mia vanità ne soffre e raramente lo faccio, ma in questo caso la vanità non ha spazio e cito anche io l’inizio de L’angelo Levine nella bellissima traduzione di Vincenzo Montanari, una gemma di purezza letteraria, talmente perfetto nel suo equilibrio tra parole, immagini, scena e musica da rappresentare bene il talento sconfinato di Malamud:
Manischevitz, un sarto, nel suo cinquantunesimo anno di età ebbe a patire molte disgrazie e molte offese. Uomo agiato, nel giro di una notte perse tutto quello che aveva quando il suo laboratorio prese fuoco e, dopo l’esplosione d’un recipiente metallico pieno di smacchiatore, bruciò fino alle fondamenta. Sebbene Manischevitz fosse assicurato contro gli incendi, le cause per danni intentategli da due clienti rimasti feriti tra le fiamme lo spogliarono fino all’ultimo centesimo di tutto ciò che aveva riscosso. Quasi contemporaneamente suo figlio, un ragazzo molto promettente, fu ucciso in guerra, e sua figlia, senza neppure una parola di preavviso, sposò un tanghero e sparì con lui come cancellata dalla faccia della terra. Poi Manischevitz fu colpito da atroci dolori alla schiena e non fu neanche in grado di fare lo stiratore – l’unico lavoro che ancora riusciva a procurarsi – per più di un’ora o due al giorno, perché oltre quel limite la sofferenza di stare in piedi diventava intollerabile. La sua Fanny, buona moglie e brava madre, che s’era presa lavori di cucito e bucati da fare a casa, cominciò a deperirgli sotto gli occhi.(cancellato per le ragioni sotto spiegate)
Note:
– scopro con un po’ di fastidio che anche Piperno su La Lettura, parlando di Malamud (in modo non particolarmente apprezzato da me, se vi interessa, sia per alcune affermazioni discutibili, ad esempio su un presunto “stile così apparentemente trasandato” che non so dove abbia trovato, sia per la solita mania da recensore diplomato di dover per forza trovare non meno di 10 o 15 padri e padrini a un autore, come se la cosa fosse di interesse supremo o utile alla lettura, invece di parlare dei testi e della lettura degli stessi), comunque cita lo stesso brano che è citato da Jhumpa Lahiri nella prefazione e che ho citato pure io (io l’avevo citato per intero però).
Qui l’effetto eco si fa disdicevole e occorre fare qualcosa per ragioni estetiche, quindi cambio brano da citare:
Dal racconto che dà il titolo all’opera, l’ingresso in scena della favolosa figura del sensale Salzman:
Il sensale sbucò una sera dal corridoio buio al quarto piano della pensione di pietra grigia dove abitava Finkle, stringendo una cartella nera con le cinghie, logora dall’uso. Salzman, che da molto tempo faceva quel mestiere, era di corporatura minuta ma dignitosa, portava un cappello vecchio e un soprabito troppo corto e stretto per lui. Puzzava decisamente di pesce, che mangiava con grande avidità, e sebbene gli mancasse qualche dente, la sua presenza non era sgradevole, per l’atteggiamento affabile che formava un curioso contrasto con gli occhi funerei. La voce, le labbra, la barba a ciuffo, le dita ossute erano animate, ma bastava concedergli un attimo di requie perché i suoi mito occhi celesti rivelassero un abisso di tristezza, caratteristica che mise Leo abbastanza a suo agio anche se la situazione, per lui, era intrinsecamente carica di tensione.