«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
PANTOMIMA PER UN’ALTRA VOLTA
Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Einaudi 2011
«Agli animali, ai malati, ai prigionieri»
Ci siamo, doveva capitare. Amo Céline per l’arte sublime della sua parola e il furore dilaniante che descrive. Pantomima per un’altra volta è un libro che da tempo volevo leggere, ne avevo sentito parlare, avevo captato qualche elemento: una delle opere meno lette di Céline, l’opera del rientro di Céline nel mondo letterario postguerra. Volevo leggerlo, assolutamente, imperativo categorico.
L’ho letto, ma non l’ho finito.
Ripeto: non l’ho finito, sto commentando un libro che ammetto di non avere finito e non so se finirò mai.
Mi sono arreso.
Sì, proprio così, è la prima volta da molto tempo che mi capita, non di non finire un libro, quello è successo diverse volte, ma sempre per eccesso di noia o addirittura per rivoltante bruttezza o stupidità, qualcuno l’ho pure scagliato contro il muro, ma mai per esserne stato schiantato, perché non ce l’ho fatta, perché è stato superiore alle mie forze. Se doveva capitare – e doveva capitare prima o poi – Céline forse è l’autore perfetto.
Voglio spiegare bene questa volta e parlerò quasi solo del mio infrangermi contro il muro celiniano, ma non perché credo sia interessante o per mio desiderio di autoconsolazione, perché mi sembra il modo per parlare di questo libro a suo modo straordinario, unico, terrificante squarcio nella natura umana putrida e divina o forse suprema beffa sadica nei confronti del mondo e dei lettori.
Come vi ho già detto, Céline produce un’attrazione irresistibile su di me, proprio Céline nelle sue espressioni più disgustose, barbare, Céline il nazista antisemita dichiarato e rivendicato e mai pentito, Céline il grande odiatore della società e degli uomini, quello che rovescia disprezzo bilioso e insulti. Proprio quel Céline, senza scuse e senza interpretazioni giustificatorie.
Quell’uomo schifoso di Céline, uno dei più grandi scrittori di ogni epoca, forse il più grande del Novecento, uno che sapeva piegare le parole e la narrazione ai voleri del suo animo dilaniato come nessun altro ha saputo fare. Unico, inimitabile (ridicola infatti l’attribuzione di “celiniano” che i critici danno a questo o quell’autore), uno dei Grandi Maestri dell’arte del romanzo, da ammirare in estasi per la bravura irreale.
Questo è Céline, ed è proprio questa anche la ragione del disprezzo che lo ha accompagnato, l’oblio nel quale una certa cultura ha cercato di scaricarlo e, non essendoci riuscita, la rivisitazione in chiave terapeutica del Céline pazzo o esteta o del Céline scrittore dissociato dal Céline uomo Non credo a niente di tutto ciò, credo invece che sia il riflesso dell’ipocrisia dell’industria culturale a volerlo tale, perché Céline è inammissibile.
Sono molti gli intellettuali, i politici, gli uomini pubblici a essere stati prima nazifascisti e in seguito riabilitati, o a essersi ricreduti e quindi diventati campioni di democrazia e di diritti umani. Molti lo hanno fatto con convinzione, sincerità e pagando prezzi elevati; altri forse meno, ma per tutti è valso il perdono, o se non altro, la rimozione del ricordo e la possibilità di ripresentarsi con la coscienza ripulita. Nessuno è stato identificato con il male.
Céline è il male nella storia letteraria del Novecento, molto più di altri associati al nazismo come Drieu La Rochelle, Hamsun o Spengler, e nemmeno paragonabile a quelli aderenti al fascismo come gli italiani Gentile, Papini e Pirandello, ad esempio, proprio perché, a differenza di questi, Céline è inammissibile.
È inammissibile che sia sopravvissuto, che non si sia ammazzato o fatto ammazzare, e invece sia riemerso, mai pentito, rivendicando il suo passato senza cercare di ripulirsi per darsi una parvenza di accettabilità; è inammissibile che sia ritornato sulla scena letteraria con il mantello della sua storia di nazista antisemita narcisista e ripudiato, come uno spettro o come l’immagine della coscienza sporca di tanti; è inammissibile che non sia stato a capo chino, sottomesso, ma abbia attaccato tutto e tutti, ferocemente, abbia vomitato accuse e insulti sui campioni della cultura vincente, Sartre in primo luogo, ma non solo, anche sui lettori, sulle persone comuni, sulla società tutta, sia tornato e abbia rivendicato il suo essere, come sempre fu, da solo contro tutti.
Ma questo ancora non basterebbe per rendere Céline inammissibile. Manca il pezzo fondamentale e formidabile che va a incastrarsi con tutto il resto.
Ciò che davvero è inammissibile è che colui che incarna l’osceno letterario, l’archetipo del topo di fogna nazista sia il più grande di tutti, innegabilmente un gigante rispetto a quasi tutti gli altri, inarrivabile nell’arte dello scrivere per i suoi detrattori.
Questo rende Céline inammissibile e indispensabile: la sua fama è un monito costante, un monito spaventoso quanto la natura umana: un individuo portatore delle idee e dei sentimenti tra i più disprezzabili e inumani è uno dei più grandi artisti e scrittori mai vissuti e le due cose sono inscindibili nell’opera di Céline.
Questo per la nostra società è inaccettabile, mina le fondamenta sulle quali tutto si poggia, religiose, civili, intellettuali e di principio. Da qui l’enorme difficoltà di ricapitolazione che Céline rappresenta per chi non può prescindere dall’arte del romanzo e dal fascino delle parole: accettare l’inaccettabile.
Di Céline è stato scritto molto e io non sono certo il più titolato a riscriverne, ma era necessario tracciare la cornice nella quale si inserisce il mio schianto contro il muro di Pantomima per un’altra volta, perché questo testo del 1952 rappresenta proprio il rientro di Céline sulla scena letteraria francese, a cui seguiranno i tre testi della Trilogia del Nord, di cui Rigodon, letto tempo fa, terribile ed estremo, è uno.
Pantomima per un’altra volta è ancora più terribile ed estremo di Rigodon, forse Beckett gli si avvicina, ma senza avere l’impatto distruttivo del portato storico e simbolico di Céline. È un testo che per descriverlo bisogna raccogliere aggettivi come folle, rancoroso, disperato, delirante, convulso, rabbioso, devastante, drammatico, violento, offensivo, dilaniato, polverizzato e così via.
È Céline nella sua forma più estrema, oltre i confini noti della letteratura e della parola stessa: forsennato come una bestia rabbiosa che pur ferita quasi mortalmente si dibatte, azzanna, ringhia, sbava, attacca tutti e tutto in un delirio incontrollabile ma, ecco ancora l’inammissibilità di Céline, scrivendo come solo un dio della letteratura può fare, di sovrumana bravura, di inimmaginabile talento nel piegare le parole al senso. Oppure, come solo un grande attore drammatico riesce a portare in scena in una finzione evidente, ma non per questo meno devastante per lo spettatore che, pur consapevole della rappresentazione scenica, ne esce turbato o addirittura sconvolto, fino a un certo punto voler chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie per non ascoltare oltre.
Céline grande figura drammatica o grande attore drammatico.
Un pezzo, Céline parla di una coppia, madre e figlio, conoscenti di lunga data, che va a trovarlo dopo la guerra e il ritorno a Parigi:
Ritorno al giovanotto lí al muro, il balordo ingrato… Ve lo descrivo mica a fondo, vale neanche la pena… Si strafuglia in tasca… è mica grave… tutti i giovani si strafugliano le tasche… un revolver? un’erezione? Gli riparlerò della sua acne… Una piccola lozione? Bah! frega niente! Se ne andrebbero più… Sono gollisti… tutta la famiglia… Altro che se lo sono! È la moda… L’odio alla moda… C’è sempre l’odio, lo stesso odio, ma c’è la moda!… Sono quattro milioni a Parigi che bollono dello stesso odio, l’odio alla moda… È mica niente quattro milioni di odî!… L’ultimo Fritz alla Villette, tutti i coltellacci fuori! Giurato! Garrotte, delinquenti, principî, Onore, Patria! Io faccio parte del gran sollevamento, i miei rognoni, la mia testa, l’aorta… un taglio di un metro di carne è promesso, Place de la Concorde! Lo squartamento pubblico dei traditori! Un servizio al minuto, colpo sicuro, altra cosa che i soprassalti della Marna! o gli sguazzatoi «alla Verdun»! La calata di centomila contro uno! Assolutamente franco ogni rischio! Il sogno realizzato delle signore, delle signorine e delle grandi pelletterie! La Pelle, Industria nazionale! Il gioco tutto delizie! La caccia alla bestia imbavaglia, incatenata, le prede sul piatto! Felicità, Patria, Ebbrezza!
Il testo è di 196 pagine, tutte così. Io mi sono fermato a pagina 106 dopo che ho raggiunto un altro passaggio terribile di questa delirante pantomima:
Sono vestiti tirolesi!… calzoni corti!… e bicorni!… Bicorni avevo visto, ma i calzoni corti?… Vedevo no dal fondo della mia carriola… non tutto!… e sferruzzavano di gambe a una velocità! è sfocato i galoppi! il loro galoppo è sfocato! Tutto è sfocato!… Ma qui li vedevo bene sul bordo! Mi strapiombavano! Mi pisciavano addosso!… io ho la presenza di spirito terribile!… Mi pisciavano addosso… tutti! e il fantoccio Nartre e la bella Elsa… No, no lei!… no lei! la sua mutanda! poteva mica togliersela via! la aiutavano tutti! i pianti di Elsa! che dolore! le strappavano i bottoni! tutta la traghetta! i forsennati! Aveste visto Ciborio! François! come si torcevano e Larengon! il fantoccio Nartre l’aiutava neanche lui! Mi pisciava addosso! là sopra di me a strapiombo lo vedevo bene! e a smaniare!
– È pagato! È pagato! che gridava. Mi mostrava col dito! me là in pieno liquame, che affogavo! Dirvi la schifezza dell’essere! E tutti adesso che si alleggeriscono! pisciare che vogliono! e Estrême il piccolo Leo!… Tirano giù la mutanda di Elsa!… Sto scandalo agli scoli delle fogne!… Le tirano giù tutti le braghe!… pisciarmi sopra!… me giù nel liquame a bere tutto!… Elsa! la disperazione di Elsa!.. che la sua mutanda tiene contro dieci! venti! trenta! la singhiozzeria di Elsa!
Come spiega Giuseppe Guglielmi, autore della stupenda e quasi impossibile traduzione, nella nota al testo, i nomi che Céline usa sono caricature degli esponenti di punta della cultura francese del dopoguerra: Nartre (Sartre), François (Mauriac), Ciborio (Claudel), Larengon (Aragon) ed Elsa (Triolet).
Qui mi sono fermato e qui mi fermo anche con questo commento.
Concludo ricordando il commento di Italo Alighiero Chiusano a Quaderni in ottavo di Kafka, quando diceva « di non riporre in nessun caso quest’opera di Kafka tra i libri che, più o meno esplicitamente, abbiamo deciso di non riprendere più in mano»; lo stesso dico io di Pantomima per un’altra volta, che un giorno spero di riuscire a finire di leggere.
Note:
– recentemente ne ha parlato anche La Stampa di questo libro.
Céline scrive libri-mondo. La cosa più ovvia che possa capitare ad un lettore onesto è di capitolare.
grazie
m