«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ROMANZO VIENNESE
David Vogel
Traduzione di Alessandra Shomroni
Giuntina 2014
Questo libro l’ho comprato per via della copertina strepitosamente bella. Una delle… non so, 5 migliori degli ultimi 5 anni, o giù di lì? Voi direte: E questo sarebbe il tuo rabdomantico senso per i libri di cui ti fai tanto vanto? – No, anzi sì, in parte anche questo, la copertina conta e difficilmente un brutto libro ha una copertina strepitosamente bella. Raro, molto raro, non ricordo nessun caso. Ci sono grandi libri con copertine orrende, ma il viceversa è difficile. Certo, la copertina strepitosamente bella non garantisce di trovare il grande libro, ma qualcosa garantisce, spesso.
E infatti, Romanzo viennese non è un grande libro. È pure discutibile che sia un bel libro, per me lo è, ma credo che parecchi potranno trovarlo non un granché o addirittura noioso. Non sbaglieranno, ognuno legge il proprio libro, e ognuno gusta col proprio palato, è così, fatevene una ragione, razionalisti e paternalisti di tutto il mondo, alla lunga voi perderete sempre. Io, mi pare di avervelo già detto, tra le 5 cose più repellenti della vita ci metto i finocchi cotti, ma capisco che molti potranno trovarli non così disgustosi se non addirittura appetitosi. C’est la vie, siamo tutti a modo nostro difettosi, chi con i finocchi cotti, chi con altro. Qualcuno lo sarà con Romanzo viennese, penso.
Però, anche se sarebbe meglio dire tuttavia invece che però, Romanzo viennese, per me, ha un suo fascino particolare e Giuntina ha fatto molto bene a pubblicarlo. Ha il fascino del semilavorato ancora da sgrezzare e stortignaccolo e il fascino del tramonto di un’epoca, quel misto di fatalismo e malizia di chi si trova per caso a vivere in anni di luna calante, di sipario che si chiude e di titoli finali, in attesa di quel che verrà, forse disastroso, forse tremendo, forse tutto e niente, chi se ne importa, noi qui siamo e qui viviamo, senza illusioni, futuro, progetti e destino. Qui e ora, nella gabbia del presente e con lo strascico pesante del passato che rende l’aria torbida, come con l’afa estiva.
Sono le epoche della risacca, del rilassamento dei costumi e della perdita di slancio, quando non rimane che cogliere i frutti già troppo maturi di stagione, sapendo che sarà l’ultima. E allora ci si ingozza, ci si strafoga, ci si concede l’ingordigia, si mangia fino a scoppiare, si concede tutto ai sensi, al corpo e agli umori.
Questa è la scena di Romanzo viennese, la Vienna decadente e senza direzione che si avvia indolente verso gli anni della Grande Guerra. È l’Europa che scivola verso il disastro, il primo che la stravolgerà. In Romanzo viennese siamo ancora abbastanza lontani per avvertire la tragedia imminente, ma ormai nella corrente dell’inevitabile, quindi, non rimane che godersela, malinconicamente, goduriosamente, carnalmente, senza invocare speranze o altre luci guida.
Michael Rost è il protagonista, ebreo russo diciottenne giunto a Vienna in stracci, miserabile, un immigrato cencioso in cerca di fortuna. Con rapidità sorprendente si risolleva, entra in un giro dal sapore bohemiéne, incontra un fantomatico magnate americano, Peter Dean, che lo sostenta e lo introduce nei circoli alto-borghesi e si ritrova ricco grazie a una prodigiosa vincita al gioco.
Inizia quella che è la vera storia del romanzo: il lento, indolente, autocompiacente scivolare sulla corrente del presente di Michael Rost, passando di donna in donna, di letto in letto fino al rapporto con madre e figlia; la seduzione intesa come si intendeva un tempo, ovvero il gioco di ruolo, educato e insistente finalizzato al rapporto sessuale, unico centro gravitazionale di un mondo in dissoluzione nel quale nessuno procede verso una meta, nessuno sembra vivere per un futuro ma tutti, indistintamente, ondeggiano oziosi e svogliati. Quando non c’è un futuro, quando non ci si affanna più nelle speranze, quando neppure la religione o le ideologie contano più nulla, e quando la società deve solo perseguire il sollievo di superare la quotidianità, allora non rimane che il sesso, la copula, i corpi, sudati, lirici, tesi, delicati, sguaiati, profumati, in vendita, verginali. Non rimane che scopare e colmare le scopate di tutto quel falso senso che ovunque si è dissolto. E tra vergine e prostituta non c’è più nessuna differenza; le prostitute tornano a essere verginali e le vergini si prostituiscono.
Questo è Romanzo viennese: la storia di un’epoca terminale, un libro lasciato a metà del lavoro, personaggi a volte incoerenti, che ci sono, poi scompaiono dalla trama, ma anche quando ci sono sono destinati a scomparire, un ritmo lento, sonnambolico, né tragico né onirico e neppure malinconico, semplicemente senza destinazione.
David Vogel morì ad Auschwitz nel 1944. Il manoscritto di Romanzo viennese fu ritrovato solo nel 2010, il testo completo di un romanzo di cui non si conosceva l’esistenza; un romanzo, tuttavia, che Vogel dovette abbandonare ancora in uno stato preliminare e quindi incerto, talvolta incoerente o grezzo. Ovviamente non sapremo mai cosa ne volesse fare Vogel di Romanzo viennese o come l’avrebbe reso nella versione definitiva. Non esiste la versione definitiva, esiste solo questa e nonostante tutto, nonostante soprattutto il fatto che forse non piacerà a molti, contiene in uno stato ancora primitivo, forse originario, il senso dell’inevitabile fine, antiretorica, disillusa, corpi che si penetrano, non rimane altro da fare.
Un brano per finire, non con il protagonista Rost, ma con un personaggio minore, forse però, credo io, centrale per la storia che sarebbe stata, l’altra metà di Vogel, l’alter ego di Rost.
Anker si voltò lentamente, come se volesse ribattere qualcosa, ma prima di rendersi conto delle proprie azioni alzò improvvisamente la mano e colpì con violenza la guancia della ragazza con uno schiaffo sonoro. Lui stesso si stupì di questo gesto, quasi l’avesse compiuto indipendentemente dalla sua volontà. E non solo: non provava rabbia né odio verso la ragazza. Al contrario, dopo averla colpita, non appena si rese conto di quanto era successo provò anche un po’ di vergogna.
La ragazza rimase seduta sul letto con la mano sulla guancia. Piangeva in silenzio, senza lacrime. Anker se ne stava davanti a lei un po’ fiacco, senza sapere cosa fare. Non riusciva a vedere il viso della giovane, che lei teneva girato, ma il suo corpo di tanto in tanto era scosso da un leggero tremito. Poi la ragazza si girò lentamente e lo guardò con occhi umidi. Aveva l’espressione di un cane bastonato. A un tratto si piegò in avanti, prese la mano di Anker e vi premette contro le labbra. Sommessamente, timidamente, mormorò senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Non c’ê bisogno di picchiarmi, non ce n’ê bisogno…» e poi, con un tono di controllata ma fervida insistenza, senza lasciargli andare la mano: «Non vuoi? Dimmi, davvero non vuoi?».
Anker ricadde sul letto, «Non l’ho fatto apposta,» sbottò in una sorta di scusa «c’è un istinto malvagio in me che spunta fuori all’improvviso e mi porta a fare cose che non vorrei». Si tolse gli occhiali e strofinò imbarazzato le lenti con un fazzoletto. Aveva uno sguardo smarrito, incerto, patetico e disorientato.
La ragazza giaceva sulla schiena, spaventata. Respirava pesantemente e si accarezzava i bei seni sodi. Insieme alla vergogna per lo strano comportamento di poco prima Anker provava anche un senso di soddisfazione, si sentiva come riconciliato con se stesso per aver dato prova di possedere ancora un sano istinto animale in grado, in certe situazioni, di agire d’impulso, senza il solito lungo percorso di esitazione, di dubbi, di tormento dell’anima.