«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
DIARIO DELL’ANNO DELLA PESTE
Daniel Defoe
Traduzione di Antonietta Mercanti
Elliot 2014
Il grande racconto della peste di Londra del 1665 è appena stato ripubblicato in nuova traduzione da Elliot con il titolo, fedele all’originale A journal of a plague year, di Diario dell’anno della peste, ma io lo leggo nella vecchia edizione di Bompiani del 1992 che aveva come titolo La peste di Londra e fu tradotto da Elio Vittorini. In questa precedente edizione, Vittorini specificava che “Traducendo, noi ci siamo permessi di operare alcuni tagli in quei tratti di arida esposizione che molte ripetizioni e ricapitolazioni rendevano di pesante lettura”. Non che la notizia mi abbia riempito di gioia, ma purtroppo era frequente che venissero operati tagli in fase di traduzione alcuni decenni fa e tutto sommato mi fido della sapienza di Vittorini.
(Aggiornamento 26/05) Non so se l’edizione di Elliot sia integrale, a spanne, valutando il numero di pagine direi di sì. Se così fosse, buon motivo per preferire la nuova edizione di Elliot.L’edizione di Eliot è invece integrale, quindi nessun taglio vittoriniano ma testo completo. Ottimo motivo questo per preferirla alla vecchia.
Ma tant’è, ormai questa ho letto e mi vorrete scusare, spero, per la discrepanza tra edizione indicata nel titolo ed edizione effettivamente letta. Mi giustifico dicendo che non credo ciò infici il commento che sto per scrivere visto che così come in una edizione risulta essere un grande libro, tale sono certo rimane anche nell’altra edizione, se non pure meglio.
Innanzitutto va precisato che nonostante la descrizione degli avvenimenti sia presentata come un resoconto di prima mano fatto da un sellaio londinese testimone dei fatti, Defoe non fu testimone diretto di quanto accadde a Londra in quel drammatico 1665 essendo nato nel 1660 e avendo scritto il Diario nel 1722.
Per questo motivo il Diario è un libro ibrido, considerato il capostipite di un genere letterario che mescola fiction e storia, ricostruzioni e invenzioni. Quello che si desume, qui attingo all’introduzione di Vittorini, è che Defoe certamente fece ricerche, consultò documenti, probabilmente anche di famigliari, raccolse forse testimonianze orali per ricostruire la scena di quei mesi, ritrovare i dati della fredda contabilità dei morti e disegnare la Londra martoriata del 1665. Le vicende personali, gli episodi narrati, i personaggi che il sellaio narratore incontra sono presumibilmente inventati.
E sono pagine potenti, tanto drammatiche per quanto vi viene descritto quanto misurate nello stile che sembra emanare la tranquillità, oggettività e meticolosità di un cronista alieno, uno spirito che scivola silenzioso tra quelle strade sommerse dall’onda mortale.
È talmente potente la narrazione nel rivelare la spaventosa quotidianità della peste che il dubbio di quanto vi sia di vero e quanto vi sia di finzione scompare dopo pochissime pagine per far spazio allo sguardo dall’alto su quella città e quegi abitanti spazzati via come briciole da una ventata violenta. Il Diario non si concede mai la vanità dell’orrido, del pietistico, del romantico o del truculento. È un diario, una trascrizione fattuale: dati, osservazioni, visite, resoconti, testimonianze; il sellaio si muove quasi a suo agio nelle strade di morte, tra i cadaveri, sul ciglio delle enormi fosse comuni e poi nella campagna, tra i villaggi barricati a respingere i fuggiaschi. Descrive con l’animo del cronista, di colui che tramanda il comportamento delle persone colte di sorpresa dall’ondata nera; chi fugge in tempo, chi decide di fuggire quando è troppo tardi, chi fugge ma viene respinto da coloro che cercano di proteggersi, chi si rifugia in mezzo al fiume ma anche là solo i previdenti sopravvivono; e ancora chi legge i numeri degli appestati delle parrocchie orientali e immagina che nella zona occidentale non arriverà e invece la peste arriva, più violenta che mai, chi muore dal mattino alla sera, la madre col figlio al seno che non si sa chi abbia passato il morbo a chi; e ancora, le case degli appestati che vengono chiuse e vigilate da un guardiano, le fughe degli appestati dalle case sbarrate, le grida dei sani rinchiusi anch’essi nelle case segnate, e poi le infermiere, povere donne che entrano nelle case di morte, moriranno anche loro, i monatti che gridano di portare fuori i morti e spogliano i cadaveri e muoiono essi stessi, talvolta un attimo prima di scaricare il loro carico di cadaveri nella fossa precipitandovi dentro con i cavalli, il carretto e il carico; e ancora chi guarisce dai bubboni, chi invece è sicuro che verrà contagiato e abbandona le precauzioni per concedersi un ultimo attimo di normalità; e poi numeri, somme, tabelle, una contabilità metodica per dare sostanza al contagio con cifre che disegnano il fronte di un’onda d’urto che avanza inesorabile.
Ma voglio ripeterlo ancora una volta: la potenza del Diario sta nell’assenza di toni patetici, disperati o terrificanti sostituiti, magistralmente, dalla lucidità del cronista classico, un Erodoto dell’anno della peste di Londra che racconta in modo stupendo i gesti, i comportamenti e il panico di una folla di uomini e donne colta di sorpresa dalla morte che avanza di strada in strada, per un intero anno.
Grande libro.