«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
FRATELLO KEMAL
Jakob Arjouni
Traduzione di Gina Maneri
Marcos y marcos 2014
Sarà almeno una decina di minuti che fisso lo schermo pensando “Cosa scrivo di questo libro?”.
Visto che dieci minuti di impasse mi sembrano sufficienti a stabilire e ammettere che non ho idee con un capo e una coda e nemmeno arguzie da marpione per infarcire questo commento, mi risolvo alla decisione drastica di parlare del fatto che non ho né idee né arguzie.
Già perché tutto sommato questo Fratello Kemal è passato senza lasciare traccia, entrato da un orecchio e uscito dall’altro, bevuto come acqua fresca, smozzicato distrattamente. Non è né brutto né bello per mio conto, né avvincente né noioso. È un librino che offre una certa piacevolezza alla lettura, una storia poliziesca con questo personaggio del detective Kemal Kayankaya turco di nome e di aspetto ma tedesco di fatto e di cultura. Lo snodo è tutto qui: Arjouni gioca con l’ambiguità dell’essere e dell’apparire in una cornice di simpatico umorismo e leggera suspence per le vicende poliziesche.
Bene, questo è quanto. Come ha detto una voce forse saggia, forse affezionata o forse punzecchiante, “Ti è mancato l’attaccamento alla serie”, il che è verissimo perché il detective Kayankaya la sua ambiguità l’ha portata a spasso per diversi libri e quando ci si affeziona le cose sembrano diverse da quando si rimane ad osservare glaciali come civette. Ma questo è uno stato di natura, un tiro di dadi del fato, una tombola del destino, l’affetto è volubile e stocastico, una volta capita, un’altra non capita, una volta spunta coriaceo come una margherita da un prato falciato, un’altra volta s’aggrinzisce inesorabile come un fiore reciso.
L’amore è nato indissolubile e travolgente con Fabio Montale di Jean-Claude Izzo, il piacere dello sghignazzo è stato forte con il matto di Eduardo Mendoza, gli occhi si sono sgranati di stupore e piacere con l’impareggiabile Don Isidro Parodi del duo stellare Borges&Bioy Casares, ma l’occhio è solo scivolato svagato dietro Kemal Kayankaya. Così è stato per me, vale per me, il che è poi anche il massimo che posso arrivare a dire. Quindi, Fratello Kemal va bene, se “v’attaccate alla serie” godrete delle avventure di Kayankaya, se non v’attaccate leggete con una dose modesta ma non irrisoria di gusto.
Ora, però, per non chiudere così, straccamente, questo commento, innesco una sana vecchia polemica scagliando un paio di strali contro ignoti, ma forse a qualcuno noti. Ovvero, viene detto, e pure molto ripetuto, basta che cerchiate un poco e potete verificarlo, che Jakob Arjouni è stato il fondatore di un nuovo genere letterario, o filone, specie, dinastia, figliolanza, discendenza, corrente, moda o come diavolo volete chiamarla: l’etno-thriller. Già, proprio così, “etno” trattino “thriller”, etno-thriller.
Quindi, secondo tale brillante definizione, se leggete Arjouni siete poi autorizzati a dichiarare “Ho letto un etno-thriller”, “Quale genere preferisco? L’etno-thriller!”, e anche fare domande fetenti tipo “Conosci l’etno-thriller?”.
Ottimo, ottimo, sono cose molto belle e soddisfacenti, come quando qualcuno si è inventato la definizione di noir mediterraneo e ha iniziato a dire le stesse cose di Jean-Claude Izzo, “l’inventore del noir mediterraneo”… e le ha ripetute, continua a ripeterle pure adesso, a ogni ristampa, a ogni ri-recensione, a ogni marchetta, comparsata, pubblicità e flatulenza.
La cosa si fa interessante dal punto di vista antropologico: c’è gente, prezzolata o meno, di sicuro interessata, che passa il tempo a inventarsi ridicole categorie letterarie che oltre a non significare una benemerita mazza, sono un insulto bello e buono agli autori ai quali vengono affibbiate, tipicamente autori morti, perché si sa, i morti hanno abbastanza educazione e cortesia da non prendere carta e penna per rendere noto a tutti che i suddetti inventori di tali insulse categorie letterarie non sono altro che dei ciarlatani che saltellano come orsi ammaestrati sul palcoscenico della pubblicità di se stessi.
Bene, bene, continuiamo così, a dire cazzate a ruota libera solo per motivi pubblicitari, lunga vita ai cazzari che se scomparissero e diventassero tutte persone serie io poi mi annoierei a morte non potendo più polemizzare contro di loro. Mi toccherebbe polemizzare con me stesso, ma questa è un’altra storia che preferisco mantenere privata, voi capirete e mi perdonerete, spero.
Nota:
– Non ho niente da dire, visto che dichiaratamente io di scrittori italiani ne leggo pochi e con fatica, quasi nessuno odierno e se mi capita lascio a Cornelio Nepote il gusto di commentare – e dopo questo prologo ovviamente dico qualcosa -, circa la comica polemica che “infuria” sulle pagine del Corriere della Sera innescata dal trombonesco Cordelli che espunge un paio di brani di onanistica farraginosità dall’opera di un paio di discreti autori giovani e da lì spara un pippone che fa venire il mal di pancia per quanto è noiosamente supponente. Accusa gli altri di mettersi in posa, posando da saccente. Comico. Come le risposte piccate.
Ma qui mi interessano le categorie. Leggo: Novisti (sinistra); Dissidenti (hic et nunc); Conservatori (destra); Vitalisti (estrema destra dannunziana-pasoliniana) [N.d.A.: da quando Pasolini è diventato di estrema destra?]; Moderati (centro istituzionale). Una bella metafora delle caselline del parlamento applicata alla letteratura che inevitabilmente induce una domanda: A che diavolo serve? e soprattutto Ma chi se ne frega delle vanverate di Cordelli?
Brutta storia l’irrilevanza, dura da mandar giù con spirito olimpico, quando rimane sullo stomaco sprigiona tromboneria.