«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
FRA I BOSCHI E L’ACQUA
Patrick Leigh Fermor
Traduzione di Adriana Bottini e Jacopo M. Colucci
Adelphi 2013
Grande annata il 2013 in casa Adelphi per quanto riguarda i libri di viaggio… anzi no, ma che dico? ma sei impazzito?! Non lo sai che a te le categorizzazioni per genere letterario ti infastidiscono e se a infastidirti sei tu stesso allora il fastidio è massimo e insopportabile? Ah già, è vero, cambio: no e poi no manco morto “libri di viaggio”, ma libri che narrano di un viaggio e attraverso il viaggio raccontano della storia dei luoghi, delle persone e del viaggiatore narrante. Così va molto meglio.
Dicevo, grande annata il 2013 con questo Fra i boschi e l’acqua, molto bello anche se con qualche perdonabile inciampo, e un altro titolo bellissimo, che non vi anticipo, chi vuole ne legge la prossima settimana, una storia meravigliosa raccontata da una narratrice meravigliosa.
Nessuna puzzolentissima nazional-popolare radical-chicchissima classifica dei migliori libri del 2013 ha citato questi titoli, ovviamente, a ennesima conferma della mia Teoria della Sovrumana Inutilità delle Classifiche (S.I.C.) giornalistiche e non solo.
Chi è Patrick Leigh Fermor? Quando si ha a che fare con dei viaggiatori la domanda è interessante, meno per i romanzieri puri, poiché essi scrivono di loro stessi e scrivono di ciò che coi propri occhi vedono, quindi anche cercare di immaginarsi l’aspetto e i tratti del viaggiatore aiuta a guardare attraverso e tra le parole.
Patrick Leigh Fermor, leggo dalla bandella (le scrive ancora Calasso? Naaaa… ma figuriamoci, chi ci crede?), inglese di classe agiata come si conveniva ai viaggiatori del tempo, nel 1934 aveva diciannove anni ed era reduce da un percorso scolastico pessimo quando parte per un viaggio a piedi che lo condurrà a Costantinopoli. Il resoconto di quell’avventura è stato riportato in due libri: Tempo di regali, che non ho letto, e che si conclude al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, e questo Tra i boschi e l’acqua che da là riparte per narrare la seconda parte del viaggio.
Ed è un racconto vibrante, avventuroso e manierato, episodico eppur fluente e pure un po’ vanitoso, tra terre carpatiche e balcaniche precedute da fosche immagini e fama di luoghi impervi e selvaggi, forse terribili, probabilmente oscuri, certamente primitivi. È il cuore buio della Mitteleuropa e dello sterminato impero o ex-impero austro-ungarico fino a sconfinare in quello ottomano, con i suoi profumi e crudeltà levantine. È quindi un viaggio nell’ignoto quello di Fermor, ancora oggi, a volerlo rifare, denso di cattivi presagi, temibile a guardarlo da occidente, come inoltrarsi in una buia e fredda boscaglia.
Queste le premesse.
In realtà, Fermor attraversa luoghi quanto mai diversi vivendo giornate sia di avventura che di agio e serenità. Ricordiamoci dell’epoca, il primo Novecento, già successiva alla Grande Guerra e alla dissoluzione dell’impero di Austria e Ungheria, ma ancora non entrata nella modernità attraverso la porta infernale della II Guerra Mondiale. Ancora si respira l’atmosfera della società aristocratica, sono gli ultimi refoli, ma nella pancia balcanica il tempo procede a passo più blando, e Fermor per larga parte del suo percorso si muove tra residenze di conti e contesse disseminate lungo la strada per Costantinopoli. Sono le vestigia della sterminata aristocrazia est-europea che ancora galleggia sulla superficie del continente, ancora collegata all’aristocrazia degli altri paesi europei e ancora condividendo quel privilegio di classe che di lì a poco verrà spazzato via per essere sostituito dalla borghesia.
È un mondo privilegiato quello di Fermor, nonostante l’asprezza del viaggio solitario e le fatiche che deve superare, ma punteggiato da lunghe soste in ville nobiliari, feste con il bel mondo locale, divertimenti da ricchi possidenti e pure avventure amorose tra i covoni di fieno con allegre popolane. Insomma, il viaggio di Fermor segue il canone del viaggiatore europeo ottocentesco, parte esploratore audace, parte nobile gaudente.
Talvolta, a mio parere, i sollazzi di cui gode e che si dilunga a raccontare con evidente soddisfazione diventano un poco stucchevoli, letti adesso almeno. Insomma, gli agi del rampollo di buona famiglia di cui gode anche tra i Carpazi e i Balcani dopo un po’ annoiano; a me hanno annoiato. Ma, come dicevo all’inizio, queste digressioni sono perdonabili se confrontate con il bellissimo spaccato su un’epoca e un territorio misterioso che Fermor ci offre.
Le descrizioni dei luoghi inospitali, gli incontri con le tribù zingare, il senso di timore che la leggendaria Transilvania incute con l’imponente e minacciosa presenza dei Carpazi e, passo dopo passo, la scoperta del territorio e delle sue genti, la descrizione della storia dei popoli, barbari, selvaggi, spesso feroci che nei secoli hanno imperversato in quelle regioni, tutte queste descrizioni sono avvincenti. Fermor si inoltra non solo in una regione non lontana da noi ma remota nella nostra percezione, si inoltra nella storia, come fa ogni grande viaggiatore. Non legge le immagini solo con gli occhi del momento o con la fatica del passo, ma si pone in prospettiva per riconoscere i segni del tempo che su una terra e su delle genti è passato, spesso come un aratro che squarcia e rivolta la terra.
Le pagine sulla Transilvania e la sua storia tragica, quella remota per le invasioni dalla steppa caucasica di popoli arcaici e feroci e i flussi incrociati di etnie centro-europee, e quella presente, all’epoca del racconto, per lo smembramento dell’impero, l’annessione di territori, precedentemente ungheresi, alla Romania, sono illuminanti, interessantissime e appassionate.
È un libro molto bello, con anche curiosità fenomenali come la vera storia del Conte Dracula, o Drãculea, «figlio del Drago», per meglio dire. Non era un vampiro in frac che volava di notte per ghermire fanciulle meravigliose, naturalmente. Era peggio. Bram Stoker creando la leggenda del vampiro, giunta fino ai giorni nostri con le recenti idiozie cinetelevisive su adolescenti vampireschi (tributo alla banalità plastificata dello show business), ne ha cancellato le vere tracce e i veri orrori consegnandoci una versione glamour della notte carpatica. In realtà, Drãculea, i romeni lo chiamavano Vlad Tepes, ovvero L’Impalatore. A buona ragione, visto il vezzo di decorare i pali della palizzata del suo castello con le teste infilzate dei suoi nemici.
Buon viaggio.
Lassù, spesso, le nuvole sono certe storie d’amore attorcigliate come quaggiù da noi. Ci sono nuvole che non fanno altro che guardarsi allo specchio in cerca di note. Altre stazionano come certi treni ormai sul binario morto. Queste nuvole qua soffrono perché si son lasciate andare e perché avevano un passo leggero, ma non hanno più l’energia elettrica di scatenare tuoni, fulmini e pioggia torrenziale. Certe nuvole ridono a crepapelle come se fossero dei vecchi che non si controllano. Ci sono nuvole che si truccano e altre che si vestono in modo bizzarro.E quelle che fanno tenerezza perché hanno un cuore grande e si nascondono per timidezza. E poi ci sono le nuvole che giocano a nascondino perché credono d’essere dei veri pensieri, cioè quando l’età diventa un ombra e credono di condurre più in alto i pensieri. Infine ci sono le nuvole pazzerelle che muovono il culo nella polvere e si rotolano a terra come i cani randagi in cerca di carezze.
Le nuvole sono degli agenti mobili e irrazionali. le nuvole soffrono come gli uomini di meteoropatia e sono esposte ai venti lascivi o feroci. Occorre pazienza con le nuvole. Specie con quelle artificiali usate come bombe ad alto potenziale. Altre volte le nuvole dopo varie andata e ritorno piangono come bimbe capricciose. E nella loro organizzazione a mezza altezza tra dura terra di ghiaccio, sangue e aridità e il primo stadio di stratosfera le nuvole si montano la testa come ragazze innamorate e donne nel turbine di nuovi amori. ecco, una delle caratteristiche principali delle nuvole sia basse che alte e a pecorelle e che loro si montano la testa come se fossero tutte panne montate. Certo, anche gli uomini si spostano con rapidità rapidamente e si ritrovano Africa, Vietnam o in Venezuela, nel paesino inesistente di Margarita, frutto della fantasia o nei pressi di Cuneo, Milano Pavia Ne vedono di storie le nuvole e i più immaginifici tra gli uomini, credono che la pioggia nella caduta dall’alto dei cieli si tramuta in lacrime più per rabbia che misericordia.
E le nuvole che lassù avvolgono il castello e sostano e viaggiano dall’alto sulla terra stessa quasi sempre a trafiggerla con le armi del ferro e del fuoco? Le nuvole che ne hanno visto tante e per tutte quelle volte si sono liquefatte alla madre terra mortifera e martoriata come gemelli che si riconoscono nell’odio e nella guerra. Una guerra spesso non dichiarata, almeno da queste parti, che almanacca cialtrona. Con i soliti morti innaffiati dalle nuvole abbarbicate di nero e di grigio totpo e grigio sporco.