«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IMPERI DELL’INDO
Alice Albinia
Traduzione di Laura Noulian
Adelphi 2013
Libro, viaggio e autrice STRE-PI-TO-SI! Bellobellissimo, i prossimi regali che farò saranno copie di questo libro, garantito al limone.
Perdonate se scavallo un po’ sopra le righe e mi concedo lodi ineleganti, ma Alice Albinia (N.B. per i patrioti con tricolore sempre pronto a sbandierare: Alice Albinia è inglese, inglese al 100%) ha realizzato almeno due imprese straordinarie: ha compiuto un viaggio, solitario e sgangherato, che lascia a bocca aperta per la meraviglia che suscita e poi ne ha scritto, opera prima, un resoconto tra i più belli che abbia mai letto.
Gran donna Alice Albinia e grande narratrice di viaggio, di popoli e di vita.
Bravissima, non c’è limite alle lodi che potrei spendere per lei, andrei avanti dieci pagine a sperticarmi, ma mi ricompongo, riconquisto un certo tono finto-rispettabile e vi risparmio le dieci pagine di lodi.
L’inizio, con il primo dei tanti incontri: lo spurgatore di fogne di Karachi.
Una testa gocciolante affiora da una buca nella strada. Seguono le spalle, poi il torso nudo. Anche le braccia escono dall’acqua e si appoggiano pesantemente sull’asfalto; con grande fatica, l’uomo si solleva dalla fogna e resta sdraiato per strada, il respiro affannoso. Indossa solo un paio di pantaloni pyjama bianchi, ora grigi e zuppi. Nella buca da cui è spuntato c’è un mulinello di acqua putrida e scura.
Imperi dell’Indo è apparso nel 2008; fino a pochi anni prima Alice Albinia, allora ventinovenne, lavorava a Nuova Delhi in una ONG, aveva una laurea in Letteratura inglese e una in Storia dell’Asia del Sud. Decide di intraprendere un viaggio quasi inconcepibile per una ragazza sola, priva di particolari mezzi economici e senza un’organizzazione alle spalle, solo dotata di un visto giornalistico e l’obiettivo di scrivere la storia che si è snodata attorno a un fiume: risale il corso dell’Indo, da Karachi, alla foce, fino alle sorgenti a nord del Kashmir, in Tibet ai piedi delle vette himalaiane, attraversando l’intero Pakistan, sconfinando in Afghanistan (clandestinamente) e in India, arrivando ai confini con la Cina, attraverso un groviglio di culture, etnie, guerre inesauribili, sommovimenti tettonici di popoli, stragi ataviche, tradizioni millenarie, aree fuori da ogni legge, primitive, zone tribali dure, violente. A piedi, in pullman, prendendo passaggi in auto, talvolta grazie ad amici, o amici di amici o parenti di amici di amici o anche grazie a compagni occasionali. Attraversa un magma di umanità e di luoghi, storie e fatti accaduti, si intrufola in mezzo a caste, nomadi, militari e trafficanti, risale il corso di un fiume preistorico, culla di civiltà e di inciviltà, tra presente, passato prossimo e passato remoto.
E ne scrive la storia: descrive gli incontri con i luoghi e gli uomini e racconta di se stessa mentre vive ciò che vede. Lo fa con l’accuratezza della storica, con la curiosità dell’antropologa, con la passione dell’esploratrice e la leggerezza della ragazza ventinovenne.
Il risultato è Imperi dell’Indo, un libro che verrà letto e ricordato a lungo, una di quelle opere che provocano una tale sorpresa da far scomparire in un istante ogni dubbio snob e piagnisteo manierato sul destino dello scrivere e del leggere e dei libri e dei lettori. Esisteranno sempre delle Alice Albinia, nascoste in qualche angolo polveroso, che decidono di rivoltare la propria vita per scrivere una storia, per raccontare il mondo e per calpestare dei sentieri sconosciuti. Solo questo importa davvero, e io sono sicuro che sia così.
Scusate l’enfasi e il pathos davvero ineleganti, mi emoziono quando incontro chi fa della propria vita un viaggio, chiuso tra quattro mura o percorrendo valli arcaiche non importa, è il senso della traiettoria, del labirinto, del procedere incessante per vie che non si sa bene dove porteranno, aggiustando la direzione di volta in volta, come meglio si riesce, con i mezzi che si trovano, gioendo e disperandosi, tra momenti di sconforto e di esaltazione, a volte rinunciando altre volte raggiungendo un rifugio per la notte. Si chiama vivere se non sbaglio, o no?
Un brano particolare del lungo racconto di viaggio, un brano intimo, leggero, quasi adolescenziale, tenero, che ci fa voler bene a Alice Albinia:
L’uomo che gestisce il posto telefonico mi salva dallo sconforto. Mi distinguo da tutti gli altri suoi clienti perché scoppio a piangere ogni volta che prendo in mano la cornetta. A ripensarci ora è strano, ma quasi non passava giorno, mentre ero in Tibet, in cui non versassi lacrime. Non sono solo lacrime di compassione per un popolo e una cultura che stanno sparendo con la stessa velocità con cui muore il fiume (benché provi anche questo sentimento); e nemmeno lacrime di rabbia al pensiero di un progetto cinese di puro stampo colonialista. Adesso piango per me. Mi sento minacciata (ben più di quanto non mi sia sentita minacciata quando ero vicina ai tribali armati di fucile, ai feudatari stupratori di contadine o a qualsiasi altro protagonista delle storie dell’orrore che ho sentito raccontare lungo il corso inferiore dell’Indo) da qualcosa di non quantificabile e irrazionale: la desolazione del paesaggio.
[…] «Cosa c’è che non va?» mi chiede mio marito, dato che alla minima espressione affettuosa scoppio in singhiozzi. In seguito imputerò i pianti all’effetto dell’altitudine. O alla bizzarra struttura della crosta terrestre nel Tibet: l’«anomalia negativa del campo crostale registrata dal Magsat», per dirla con le parole dei geologi.
Bravissima Alice Albinia e bellobellissimo Imperi dell’Indo.