«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
UN CERTO LUCAS
Julio Cortázar
Traduzione di Ilide Carmignani
SUR 2014
Commento di Cornelio Nepote
Stimatissimi gentiluomini e adoratissime gemme smeraldine luce dei miei occhi gentilsignore, era da assai che non mi affacciavo e forse qualche animo tenero si era domandato che fine ebbi ad avere. Domanda e apprensione inutile. Ben più preferisco chi non s’è domandato nulla e m’ignora, ch’io nulla di più d’esser ignorato domando a questo mondo meraviglioso e crudelissimo.
Ebbi un arrovescio di sorte, un travaglio di cuore e l’animo ne rimase graffiato, sanguinante, sebbene solo d’escoriazione superficiale. Mi ritirai nel silenzio delle stanze odorose di muffa e di memoria, nel quieto ripetere dei gesti ricorrenti e inutili, nel pensiero dei pensieri della contingenza.
Nell’ora crepuscolare di questa domenica pomeriggio torno, atteggiandomi non smargiassamente come talvolta feci, ma pacato, ombrosamente cupo come una bruma scozzese, lucido come un cristallo di rocca o un polpaccio femmineo appena scerettato. Torno per raccontare alle gentilsignore quello che forse non sanno, forse intuiscono ma non colgono e forse, dico forse, che certezze non ve ne sono, tranne che ci fu un’alba e arriverà un tramonto, comprendono ma la necessaria crudeltà della vita non trattiene che un istante solo prima di sciacquar via. I gentiluomini sono certo che quanto andrò a narrare ben conoscono ed esperienza ne fecero.
Voglio raccontare dell’uomo sedotto e abbandonato da fanciulla ingrata o forse pur anche grata ma evanescente ovverosia che s’è annebbiata e perduta si fece. Quindi, non di grandi passioni voglio parlare, non di tragedie d’amor, non di unioni d’una vita che d’un tratto si precipitano dalla rupe. No. Non di questo. Di altro. Dell’incontro fatale e breve, del congiungimento durato un batter di ciglia, del lampo seguito dal tuono e da null’altro, dell’usa e getta, come si suol dire al mercato o al bar d’abbasso.
Sempre si parla della fanciulla ghermita, della dama sedotta e abbandonata, dell’uomo cacciatore e della donna preda. Sempre di questo e solo di questo. Mai si parla dell’uomo ghermito, sedotto e abbandonato, dell’uomo preda. Come se non succedesse e se pur vogliamo concedere al fato di farlo capitare, come se non lasciasse traccia, fosse quisquilia, fosse nulla, un graffio sul sasso, un pugno al muro o una sberla di gommapiuma. Come se l’uomo non avesse sentimenti, non fosse fragile, non fosse talvolta incapace di frenare il proprio precipitare in un gorgo. Come se fosse diverso da una donna. Questo è sessismo, discriminazione e insensibilità. Non l’accetto e quindi di questo vi parlerò.
Chi non fosse interessato s’accomodasse pure all’uscita, io non m’offendo, alzi saluto con un inchino e ringrazio per la visita, augurandomi un nuovo incontro a breve.
Perché a ben pensarci, tutto d’un uomo dipende da una donna, anche quando non dipende da una donna, dipende dall’assenza di una donna, e quindi pur sempre di donna tratta la faccenda. Come i fiori dipendono dalle api, non tutto dei fiori dipende dalle api, ma i fiori son fatti per le api, non v’è dubbio, non per i bouquet floreali degli uomini e delle donne, questo è bene ricordarlo sempre, e allo stesso modo sono uomini e donne, come fiori e api o come api e fiori, dipende, a volte uno a volte l’altro, ma certo son fatti l’uno per l’altra. L’ordine in una casa d’un uomo dipende dalla presenza o assenza di una donna, eventualmente remunerata o affettivamente legata; il colore dei calzini indossati il mattino ne dipende, inclusa la coincidenza di colore tra il destro e il sinistro; l’igiene personale spesso ne dipende, il cibarsi secondo usanze di popolazioni civili o reputate incivili, perfino i pensieri dell’uomo dipendono dalla donna, in forme e varietà che noi tutti ben conosciamo.
Sapete, miei impalpabili, che un golfo ha la forma del seno femminile, pur essendo uno una insenatura e l’altro una esposizione, e che il violoncello, il più femmineo e drammatico degli archi, ha la forma perfetta di un busto di donna, con la morbidezza commovente dei fianchi e la sottigliezza emozionante della vita che s’apre al busto fiorito. La donna è ovunque nel mondo inventato dagli uomini, ora come sempre.
Anche un libro è spesso paragonabile a una donna come un golfo lo è a un seno o un violoncello al corpo femminile. Un libro lo è come un incontro breve, casuale, che può essere noioso, intenso, divertente, triste, antipatico, simpatico, eccitante, deludente, emozionante, stancante. Per questo il paragone con un libro è adatto assai al discorso mio.
Ad esempio prendiamo questo Un certo Lucas, del divino, da me amatissimo, da molti celebrato, autore di culto per tanti, a volte sopravvalutato, Julio Cortázar. È come una donna incontrata per caso e da lungo tempo attesa, come se predestinata ad incrociare la strada vostra, così sembra sempre che a noi par brutto definirci figli del caso. Anche se tali siamo, senza possibilità di smentita.
Al primo sguardo v’ha attratto, quella copertina gialla brillante v’è rimasta impressa come una luce sgocciolata sulla pellicola. Ma vi siete negati. Per timidezza, per cinismo, perché si sa sempre come va la vita: mai abboccare all’amo che invitante danza a mezz’acqua. Mai assecondare la prima impressione. Chi crede al colpo di fulmine è incretinito.
Quindi non le parlate, se non poche frasi, compite, fingendo indifferenza, come se fosse un libro qualunque, eppure continuate a osservare. Occhieggiate tra lo scaffale, al massimo lo prendete in mano, una sfogliata, qualche riga letta e lo riponete. Un sorriso, due sguardi che si incontrano e si mescolano. La finzione sta per finire.
Eppure ancora dite No, non ne accarezzerò le pagine! No, non le prenderò le mani! Non lo leggerò! Non l’abbraccerò! e ripetete No, no, no, no…
No. E invece sì. Come succeda non lo sapete neppure spiegare, non vi ci raccapezzate, è un fiume che s’ingrossa in un attimo, da ronfante bestione diventa un diavolo che urla, tutto prende a correre, forsennatamente, vi ritrovate sulla porta di una libreria con il libro in mano accarezzando quella copertina gialla, vi ritrovate stretti in un abbraccio, con le sua labbra morbide che si lasciano baciare. Vi ci ritrovate e non sapete spiegare come, ma non v’importa, siete felici, dite che era inevitabile, che lo sapevate fin dal primo sguardo a quel nome e quel titolo, in quegli occhi nocciola che sembrano leggervi i pensieri.
È l’incontro, uno dei momenti che rendono meravigliosa una vita, quando vi sembra di respirare il doppio dell’ossigeno.
Comincia l’inseguimento. Pensate di continuo al momento in cui potrete averlo in mano e leggere quei caratteri, seguire le parole, dondolarvi sulle frasi, in quello stile inimitabile, infilare le mani aperte nei suoi capelli, seguire con un dito la curva dietro l’orecchio, scendere sul collo, correre su una clavicola e aprire la palma sulla pelle vellutata della spalla.
Lo guardate, vi perdete nei suoi sorrisi, lo sfogliate, la osservate far ballare le mani nervose.
Cominciate a leggerlo per tutta una sera, la trascorrete coccolandovi, mangiando insieme, ridendo, sorridete ai titoli dei racconti, giocate a far la lotta. È vita questa, gentilsignore, per un uomo; sono gli attimi di gioia più intensa, i minuti e le ore che fanno di un uomo una persona felice, dimentica di ogni cosa, di ogni problema, dei rancori, dei guai, può sembrare infantile, preda di regressione bambinesca, un ragazzino eccitato, ma in realtà non è mai stato tanto uomo adulto, cosciente, orgoglioso e soddisfatto come in quei momenti.
Continuate a leggere fino tardi e nel silenzio pesante dell’ora notturna, nella quiete sedimentata del tempo del sonno, una ventata fredda improvvisamente vi investe. La lettura s’è affaticata, s’è smorzato l’entusiasmo, c’è qualcosa che non va, così sembra. I giochi sono finiti, le risate sembrano meccaniche, gli abbracci delle pose, il suo corpo delicato, emozionante, sembra essersi raffreddato.
È solo un’impressione sbagliata! Ho sonno, sono stanco! così dite e v’addormentate scacciando quella brutta sensazione certi che l’indomani tutto sarà nuovamente bellissimo.
L’indomani riprendete la lettura e questa volta subito, fin dalla prima frase, ritorna quel gelo. Vi concentrate. Non cambia. Lo chiudete. Vi alzate, bevete qualcosa, vi distraete per cancellare quel brutto pensiero. Ma il brutto pensiero rimane: C’è qualcosa che non va, ripete, e voi No! No! Non è vero!, ma lui imperterrito continua: C’è qualcosa che non va in quel gelo.
Di nuovo l’accarezzate come la sera prima, lei sorride, si raggomitola, l’abbracciate, di nuovo infilate le dita nei capelli, ripetendo ogni gesto, scaramantici, come per riaccendere il fuoco spento con gli stessi legnetti. Lei ride, voi ridete, i suoi occhi sono ancora nocciola e vi ci perdete. Per un attimo solo. Poi il gelo. L’iride color nocciola è diventata opaca da trasparente che era, gli abbracci sono rigidi, non cercano il respiro, il suo corpo è freddo.
C’è qualcosa che non va.
Poi di nuovo, il fiume che sembrava tornato un bestione sonnolento si indemonia. I giorni si accavallano, voi inseguite lei si allontana, leggete con affanno, una storia dietro l’altra di Lucas il personaggio che doveva conquistarvi e che avreste amato per sempre. Nervosamente le parlate, con accenni provocatori, credete di sbloccarla facendola reagire e invece tutto sembra affievolirsi; la foga della lettura diventa pesantezza, i sorrisi prendono la piega della malinconia e dell’amarezza, iniziate a saltare qualche frase, un intero paragrafo nella speranza che il racconto successivo sia l’inizio dell’apoteosi glorificatrice, non la chiamate pensando che riflettendo capirà l’errore che sta commettendo, il racconto successivo continua con lo stesso ritmo indolente, svogliato, brioso ma per finta, lei vi chiama, dice Come stai?, uguale che a un malato, e voi, che malato non eravate, v’ammalate di malinconia.
Infine, arriva l’ultima pagina. La voltate, c’è l’indice, Voltate, ancora e ancora e ancora tutte insieme quelle inutili che rimangono. Come gli ultimi messaggini che le avete inviato. Voltate la copertina e leggete: «Il libro di Cortázar che assomiglia di più al suo autore». —Jaime Alazraki.
Chi cazzo è questo Jaime Alazraki?, pensate. Perché cazzo le ho scritto quel messaggino da imbecille?, pensate.
Scusa, pronunciate piano rivolti all’amatissimo Cortázar. Scusa, le scrivete nell’ennesimo messaggino.
La quarta di copertina è come l’ultima telefonata. Non importa chi l’abbia scritta ne cosa vi sia scritto. Non importa chi abbia chiamato l’ultima volta né cosa ci si dica. Importa che sia l’ultima. Poi è finito. È finita.
Non si può tornare indietro, non si può cambiare nulla, niente è più vostro di quel che accade.
Potendo rifarlo, rifareste esattamente le stesse cose.
È stato breve, un attimo, qualche giorno, poche notti, una manciata di incontri, di sospiri, di respiri, due passioni che sono morte in culla. È stata meravigliosa l’idea e l’incontro. È stato meraviglioso credere di ricreare un incanto. Questo è stato realmente meraviglioso. Come quella copertina gialla, come i suoi occhi nocciola trasparenti.
E ora, gentilsignore, vi faccio una domanda.
Voi sapete cosa succede a un uomo dopo che ha finito di osservare la quarta di copertina o che ha smesso di ascoltare il telefono che si è fatto muto?
Io credo che voi pensiate forse che sta male, che è deluso, che è arrabbiato, che prova rancore, che impreca, che sparlerà di voi, che s’incupirà qualche sera bevendo troppo con gli amici fedeli e poi gli passerà tutto. Un uomo non è come una donna ghermita, sedotta e abbandonata, presa in giro, tradita nei sentimenti. Un uomo è un’altra cosa. Un uomo reagisce solo alle grandi storie o alle grandi passioni tragiche o alle ossessioni maniacali anche. Alle letture travolgenti e agli amori per i quali perde la testa. Non è abbastanza sensibile per turbarsi per un libro minore nell’opera di uno dei grandissimi o per pochi giorni di effusioni senza impegno.
Non accade sempre questo, a volte forse sì, a volte certamente no.
A volte quando posa il libro e il telefono, il cuore gli si spezza.
Perché, dovete sapere, che il cuore è come un piccolo otre o un’anfora o altro generico contenitore di modeste dimensioni. È un contenitore cavo e contiene tutte le lacrime di un uomo. Un uomo ha sempre le lacrime dentro il cuore. Finché le lacrime rimangono nel piccolo otre ben tappato, un uomo è un uomo come si intende normalmente un uomo ed è inutile che spieghi oltre perché lo sapete benissimo cosa s’intende.
Ma quando il cuore si spezza, le lacrime escono e impregnano tutto il corpo, lo riempiono, dalla pancia al petto ai polmoni alla testa finché non tracimano dagli occhi, a volte, anche se non sempre.
Piangono anche gli uomini quando il cuore si spezza.
Poi piano piano si ripara e torna a riempirsi di lacrime come al solito.
Pensa ai cronopios ai famas e alle speranze – balla provala e balla tregua -, pensa alla bellezza del sorriso di lei mentre lo guardava con quegli occhi nocciola trasparenti, pensa alla Maga di Rayuela, pensa all’abbraccio che ascoltava il respiro.
E cosa rimane dopo che il cuore si è spezzato e le lacrime hanno inondato l’uomo?
Adesso non ci provate più a dare una risposta, vero?
No. Adesso non ci provate.
Il senso di tragedia? No, troppo brevi pochi giorni, troppo rapido quel gelo trasmesso dalle pagine, dalle mani.
La sensazione di mancanza? Del suo corpo, della sua voce narrativa, della sua presenza, delle sue frasi inchiostrate, del suo occupare spazio nella vita, del suo ritornare con immagini di sogno? Un po’, ma non troppo. Non è stato abbastanza lungo l’incontro per sagomare lo spazio plastico con una forma, non si è creata un’abitudine, mancano i riti, le certezze rovesciate, è mancato il ritmo delle parole sul quale si accorda il respiro.
No. Non rimane la voragine dell’amore perduto per un’idea.
Rimane il vuoto del silenzio, il vuoto del sorriso che si è spento, il vuoto dell’umanità perduta.
Si rimane soli guardando quella copertina gialla buttata sul divano e quella porta che non andrete più ad aprire pensando agli occhi nocciola che vi avrebbero guardati.
Rimane un uomo a capo chino che ha perduto il calore di un abbraccio e non può fare nulla, neppure disperarsi, neppure sconsolarsi, neppure tragediarsi.
Nulla. Non rimane nulla. Voi non lo sapevate questo.
Vi abbraccio, distinti gentiluomini e stelle raggianti gentilsignore.
Cornelio Nepote
(Nota: ci sarebbe quasi da commuoversi se non fosse che Cornelio Nepote è il principe dei mentitori, un imbroglione incorreggibile e uno spudorato teatrante. Diffidate, amici. –2000battute)