«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL BENE SIA CON VOI!
Vasilij Grossman
Traduzione di Claudia Zanghetti
Adelphi 2011
Che Grossman meriti sempre di essere letto è una verità incontrovertibile, a mio parere, come anche che le raccolte di scritti vari – racconti, testimonianze, riflessioni – molto spesso producano effetti altalenanti.
La lettura inevitabilmente si spezzetta, ma questo vale per qualunque raccolta anche di soli racconti, in più però, quando i testi sono eterogenei, si aggiunge la fatica, a ogni nuovo testo, di riportarsi nello stato originario quando invece l’inerzia del precedente ancora spinge nella sua direzione. E non sempre ci si riesce bene, quindi testi differenti si contaminano, un po’ di senso tracima da uno all’altro, così come un po’ di noia può annebbiare il successivo o altri effetti da vasi comunicanti.
Per questo io cerco di evitare le raccolte eterogenee, come è Il bene sia con voi!, ma vale la premessa: Grossman merita sempre di essere letto.
Qui torna ai suoi temi consueti: gli orrori della guerra, la vita sovietica, lo sguardo a livello della strada, entrando nelle povere case, il grigiore metallico. Non raggiunge mai le vette sublimi di Tutto scorre…
Su tutti i brani, due spiccano perché meno legati alle memorie e più palpitanti, si ascolta la voce emozionata di Grossman che racconta e si sforza di descrivere ciò che lo riempie tanto di emozione.
Il primo si intitola La Madonna Sistina, che è il nome di un quadro di Raffaello che Grossman vide a Mosca prima della restituzione alla pinacoteca di Dresda avvenuta nel dopoguerra.
È stupefacente la descrizione che ne dà in quanto simbolo eterno di laicità e di umanità.
La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena. È democratica, umana; è la bellezza di tante, tantissime persone – gialli con gli occhi a mandorla, gobbi con il naso lungo e pallido, neri con i capelli crespi e le labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo, e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie.
Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’umano a cui il divino non partecipa.
Naturalmente il quadro può altrettanto appassionatamente essere interpretato o semplicemente guardato con occhi diversi. Ma non importa, il gusto di stabilire quale sia l’interpretazione da far primeggiare lo lascio volentieri ai professionisti della faccenda. Quello che mi colpisce è la capacità di Grossman di vedere specchiata nelle fattezze della Madonna di Raffaello un’intera umanità, anzi, la sua umanità, quella che ha così tante volte descritto e raccontato. Una stupefacente capacità di sintesi e di ricapitolazione, per conto mio.
Il secondo testo è l’ultimo, quello più lungo e che dà il titolo alla raccolta. Grossman descrive un suo soggiorno in Armenia per motivi di lavoro, come traduttore, senza conoscerne la lingua, di un poeta armeno. Questa volta e a differenza del suo stile abituale, Grossman si lascia affascinare dalla natura aspra e feroce dell’entroterra armeno. In quell’asprezza riesce a vedervi l’anima di un popolo e sono pagine molto belle.
È la pietra il carattere e la sorgente di quel luogo, una pietra immemore, antica, levigata e frantumata da tempo eppure sempre affiorante.
Villaggi armeni: case con il tetto piatto, blocchi bassi di pietra grigia; niente verde – invece che da alberi e fiori le case sono cinte di pietra grigia. Case che non paiono erette da mani umane. Ogni tanto il grigio della pietra prende vita, si muove. Sono le pecore. Generate dalla pietra anch’esse, di pietra probabilmente si nutrono – i sassi -, e di pietra si abbeverano – la polvere; l’erba non c’è e neppure l’acqua, attorno soltanto una distesa piatta, una steppa di pietre – grandi, aguzze, grigie, verdastre, nere.
I contadini hanno indosso la nobile uniforme dei lavoratori sovietici: giubbe imbottite grigie e nere; e sono come le pietre fra le quali vivono, hanno volti scuri perché scura è la pelle e perché non si radono. Molti hanno ai piedi calzini bianchi di lana tirati sopra i pantaloni. Le donne si avvolgono in testa scialli grigi che coprono la bocca e la fronte fino agli occhi. Scialli grigi come la pietra.