«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
AURA
Carlos Fuentes
Traduzione di Carmine Di Michele
Il Saggiatore 2011
Commento di Cornelio Nepote
Signori miei, ma soprattutto Signore vostre, oggi m’appello alla luce serica che scende a lama poggiata dalle valli ghiacciate asperse di bruma verdognola perché tutto oscuri, tutto incupisca e si dissolva, come stelo irrigidito di vegetale sfibrato e infine spezzato dalla brina mordace.
Leggo Aura del messicano Carlos Fuentes col cuore spezzato dalla dama impervia che vi ha infierito come ala fratturata di piccione schivo colpito da sadico bambino; leggo perché essa lesse e di questo libro spese parole dolci; per questo leggo, come colui che munito di binocolo, dall’alto di una cima sferzata da un vento carico di miasmi voglia esplorare una valle oscura in cerca di vita, di un segno purchessia di vita, umana se possibile.
Leggo Aura per capire colei che di crudeltà mi fece dono imperituro (cioè che al momento a me mi pare imperituro, ma forse non è proprio così imperituro).
E cosa trovo? Un racconto, un mignon che si ingoia in quattro e quattr’otto. Tal Felipe Montero viene assoldato da una vecchia dama decrepita per scrivere delle fantomatiche memorie di un certo marito defunto. Una casa inquieta attraversata da presenze, sospiri e squittii di topi. Una giovane eterea, bella come un golfo al tramonto di nome Aura. Una storia d’amore tra Felipe e Aura, notturna, serafica, irrealmente pregna di corporeità e sentimento, avvolta in una cortina di fumo azzurrognolo per i riflessi lunari che isolano gli amanti. Vetta di senso e gola di insensatezza.
Il racconto termina, cupo, in dissolvenza, cupio dissolvi, nulla era quello che era né mai lo fu, magia e sogni come riflessi di luce lunare che tradisce e inganna, amor non era amore ma disperazione e tempo fuggito, il piacere brucia veloce e lascia solo cenere, cera sciolta e insensata decrepitezza.
Storia sentimentale, malinconica e depressa, insomma. Una storia che tirerei volentieri in testa a quel fanfarone di 2000battute, se non ci fosse quel certo coinvolgimento di cui vi ho detto.
Quindi mi rattengo e rifletto. Che cosa ho compreso? Che ho veduto spazzando col binocolo la valle oscura? Che mi ha acceso la storia di Aura? Nulla. Non ho compreso, visto o mi si è acceso nulla di nulla. Manco una scintilletta sforzata. Un deserto di pietre e arbusti secchi.
Della crudele dama manco l’ombra e allora che devo dedurre da tal raccontuzzo?
Che fu presciente? Che m’avvertiva? Che d’evanescenza s’acconciava?
Macchè, queste sono minchionate. La verità è ben altra e puzza pure un poco di fregatura.
Pensavate veramente di capire qualcosa di una persona leggendo i libri che essa affeziona?
Ma non fatemi ridere! Di tutta questa faccenda, che forse mi sono pure inventato apposta per immalinconirvi, le uniche cose che importano sono due: Uno) che Aura di Fuentes è un racconto di amori malinconici e sfortunati che si legge veloce e Due) che la gente s’inventa qualunque fesseria pur di farsi raccontare la storia che vuole sentire, perfino leggere libri e trovarci scritta proprio quella storiuzzolina che voleva sentire. E Tre) che la vita è tutto un cercare di capire qualcuno non capirci un’oliva farsi delle domande non capire nemmeno le proprie stesse domande rispondere a caso e ricominciare da capo oppure morire di noia davanti alla televisione.
Sono cose da matti, tutti matti da legare, chi scrive, chi legge, chi sogna, chi mente, chi ama, chi non prova niente, chi respira e chi non sa quel che fa.
Statemi in salute,
Cornelio Nepote