«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA VITA E IL TEMPO DI MICHAEL K
J. M. Coetzee
Traduzione di Maria Baiocchi
Einaudi 2001
[Libro disperso]
Era da tempo che il nome di Coetzee mi tornava in mente a più riprese e con notevole perspicacia ne ho dedotto che forse era perché desideravo leggerlo.
L’avevo incrociato in modo diffidente, scrutandolo di sguincio e da una certa distanza, leggiucchiando qualche brano, interviste, piccoli interventi e Coetzee per me rappresentava un grande saggio di una terra lontana e scorbutica, una specie di coscienza bianca che osserva gli aborigeni, se fosse stato australiano, ma è sudafricano e non ci sono poi tante differenze, in realtà, anzi, sudafricani e australiani si assomigliano parecchio, entrambi hanno atrocità recenti sulla coscienza, entrambi vivono in pochi insediamenti occidentali anglosassonizzati circondati o con alla spalle l’ombra e il respiro enormi del bush o del veld, insomma dell’entroterra atavico, immemore, selvaggio, aborigeno, nero, la loro coscienza lurida.
Per questo si assomigliano proprio parecchio sudafricani e australiani nella cupezza dolorosa e nella serietà tragica che assumono. Coetzee per me era il grande saggio della montagna dei bianchi delle terre estreme con la coscienza sporca spalmata nel veld/bush che puzza di carogna e respira rauco.
Questo mi provoca un certo senso di inferiorità o soggezione nei confronti di questi autori, come se mi rendessi conto dell’inescusabile inadeguatezza di noi animali europei da salotto o da divano con alle spalle al più il ronzio dell’aria condizionata, nei confronti di chi alla spalle sente cigolare le ruote della propria storia omicida.
Forse esagero un po’ con l’epica cupa, ma così è per me con questi autori, tendenzialmente scarsi in quanto a sensibilità artistica, ma densi di riflessi tragici. Ci sono eccezioni: “scarso di sensibilità artistica” di sicuro non si può dire di J. M. Coetzee che, anzi, è uno dei grandi contemporanei.
Con questo La vita e il tempo di Michael K, attualmente non disponibile nel magico mondo degli scaffali delle librerie, Coetzee prese il Man Booker Prize nel 1983, per chi ci tiene ai premi, ma a parte ciò, scrisse un libro dalla voce quasi afona, un libro della polvere, una storia senza storia con un personaggio che non è un personaggio ma solo una sagoma ritagliata sullo sfondo di una normale guerra schifosa e incomprensibile tra non-si-sa-chi né per quale ragione – qualcuno ha voluto trovare nel K di Michael K un omaggio a Kafka e forse ha ragione.
Coetzee scrive un libro difficilissimo da scrivere proprio per l’assenza di tutto, seguendo Michael K, un deficiente dal labbro leporino che vaga nella vita e tra le circostanze, inconsapevole di quasi tutto, indifeso, inutile. In questo senso è un libro sudafricano e non europeo: il nulla selvaggio che si apre alla spalle è una presenza costante, palpabile, è una possibilità per chiunque, anche un deficiente come Michael K lo sa e vi trova rifugio. È simbolico e reale, nel veld selvaggio si determinano le sorti della storia, là gli uomini sudafricani fanno i conti con se stessi e sempre là mostrano la loro ferocia bestiale, là si combatte una guerra incomprensibile su un fronte non segnato e tra eserciti che non si fronteggiano mai.
Michael K vaga dalla città al paese nell’entroterra, prima con una madre moribonda, poi con le ceneri della madre defunta, poi semplicemente a mani nude e ogni volta il mondo civile lo riporta indietro, nella Storia e nel Mondo, perché nessuno può uscire dalla Storia e dal Mondo e rimanere in vita.
Certo dire che Michael K è un anti-eroe è scontato, ma lo è al massimo grado, è la nostra rappresentazione in controluce, lui lo stato di natura indefinito e per differenza quello che si scorge è il segno dell’ottusità arrogante e violenta della società cosiddetta civile che non tollera chi per natura dovrebbe essere lasciato libero di porsi al di fuori, semplicemente in una dimensione differente, in un discorso pronunciato in un’altra lingua. Chi comprende questo, come fa il personaggio del dottore, e si riconosce colpevole, non può che perdere il proprio falso equilibrio e cadere sulle ginocchia.
K sedeva con la testa tra le ginocchia. Anche se aveva la mente lucida, non riusciva a controllare le vertigini. Aveva un filo di saliva che gli colava dalla bocca, ma non se ne preoccupava. Ogni granello di questa terra verrà lavato per bene dalla pioggia, si disse, e asciugato dal sole e spazzato dal vento, prima che ricominci un nuovo ciclo di stagioni. Non ci sarà più un granello che porti il mio segno, proprio come mia madre che ora, passata la sua stagione sulla terra, è stata lavata via, dispersa dal vento e risucchiata dai fili d’erba.
Allora, che cos’è, pensò, che mi lega a questo pezzetto di terra come fosse una casa che non posso lasciare? Tutti dobbiamo lasciare casa, dopotutto, tutti dobbiamo lasciare le nostre madri. O forse sono uno di quei bambini, un bambino che discende da tutta una serie di bambini, di quelli che non sanno staccarsi, ma debbono tornare tutti a morire qui, con le teste sul grembo delle madri, io sul suo, lei su quello di sua madre, e così via andando a ritroso generazione dopo generazione?