«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
NATURA MORTA CON CUSTODIA DI SAX
Geoff Dyer
Traduzione di Riccardo Brazzale e Chiara Carraro
Einaudi 2013
Libro curioso questo di Geoff Dyer, ripubblicato da Einaudi l’anno scorso, un po’ storia del jazz, un po’ ritratti immaginari di eroi perduti e molto intrattenimento per lettori di quella borghesia sofisticata che ama cullarsi nella nostalgia di tempi che non vissero mai.
Gli eroi del jazz di Dyer sono uomini fragili, psicologicamente spezzati, intossicati da qualunque droga disponibile, legale e illegale, tutti barcollanti su equilibri psichici labili se non addirittura periodicamente internati in reparti psichiatrici. Tutti avvitati in una indispensabile spirale autodistruttiva. Sono artisti geniali, sono uomini che vivono sulle note di un assolo jazzistico. Sono ricalcati sulla sagoma classica degli artisti maledetti di stampo francese, belli e dannati, nel caso del jazz, quasi sempre, anche negri e discriminati.
Per tutti questi motivi, gli eroi di Dyer sono affascinanti: umani e disumani allo stesso tempo, veri e irreali, sono finzioni meravigliose, massaggiano quell’ideale di vita bruciata sul fuoco del genio folle e suicida che da sempre suona come una sirena irresistibile per i borghesi sofisticati, comodamente legati alle loro poltrone comode da lacci invisibili, come tanti piccoli Odisseo da divano sognano una vita devastata come quella di Bud Powell, geniale pianista e psicolabile incurabile, oppure palpitano per Chet Backer, trombettista bianco drogato e instabile fino al midollo, e così via per ognuno dei magnifici e indimenticabili personaggi di Natura morta con custodia di sax… Leste Young, Thelonious Monk, Ben Webster, Charles Mingus, Art Pepper, con l’accompagnamento lungo quanto il libro del duo errante nella notte stradale, Duke Ellington e Harry Carney.
Dallo stereotipo tragico che precede gli eroi del jazz narrati da Dyer sorge inevitabile la coltre di sofferenza che sembra traspirare dal terreno stesso che calpestano i grandi del jazz. Niente è sereno, non esiste pacatezza, tutto si rotola nell’ansia, nel senso di precarietà e nella immediatezza del gesto artistico. Tutto è meravigliosamente perfetto nella narrazione della gestazione artistica e della morte di un uomo. Gli eroi del jazz sono star per un certo mondo e poveracci per un altro mondo, quello dei poliziotti che li arrestano, ad esempio. Sono geniali e miserabili. Sono incapaci di tutto, persino di vivere, tranne essere divini con un sax, o un pianoforte o una tromba.
Sono vittime designate. Per questo grandiosi e autentici. Ecco l’altra immagine che emerge da libro: l’autenticità degli eroi. Sono eroi in quanto autentici. Quelli venuti dopo, quelli di oggi, non hanno nulla di eroico perché sono artificiali. Non si autodistruggono, non sono eroi.
Bello Natura morta con custodia di sax e bravo Geoff Dyer, uno che mi riconcilia con gli scrittori americani.
Un pezzo, con Lester Young e Billie Holliday.
Il loro rapporto stava tutto in questi lievi sfioramenti, un rapido bacio sulle labbra, una mano sul gomito: teneva le dita di lui fra le mani, come se la loro sostanza non fosse più abbastanza solida per rischiare un vero contatto. Pres era l’uomo più delicato e gentile che avesse mai conosciuto, la sua musica era una stola posata sulle spalle nude, senza peso. Era quella la musica che aveva amato più di ogni altra, e probabilmente lui era l’uomo che più di ogni altro amava. Forse amiamo sempre di un amore più puro le persone con cui non siamo mai stati a letto. Non ci hanno mai promesso nulla, ma ogni momento con loro è stato una promessa nell’attesa di essere pronunciata. Lei guardò il suo volto reso spugnoso e grigiastro dal bere, e si domandò se le loro vite non avessero contenuto in sé il germe della rovina fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco per qualche anno, ma che in realtà non avrebbero mai potuto eludere. Alcol, roba, prigione. Non è che i jazzisti muoiono giovani, è che invecchiano più in fretta.