«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL SESSO NELLE CAMERE D’ALBERGO – Saggi (1989-2010)
Geoff Dyer
Traduzione di Giovanna Granato
Einaudi 2014
Iniziamo dai dettagli. Il titolo. Sesso… camere d’albergo… gustoso, bavoso, pruriginoso, ma la solita trovata da giornaletti da sbarco. Il titolo originale è Otherwise Known as the Human Condition, il che sarebbe stato molto meglio, ragionevolmente tradotto, de Il sesso nelle camere d’albergo, che è invece il titolo di uno dei “saggi” meno riusciti di questa raccolta.
Secondo dettaglio. “Saggi”. La versione originale dice Essays and Reviews, ma da noi le “recensioni” si sono smarrite ed è rimasto solo “saggi”, che tra l’altro lascia un po’ straniti quando quello che si legge è una recensione o non più di una rimuginazione personale di Geoff Dyer, di certo non un “saggio”.
Questo per essere puntiglioso, perché va bene che Geoff Dyer è uno estroverso e imbizzarrito difficilmente classificabile, che in questa raccolta ha volutamente messo insieme il lusco e il brusco, un po’ di questo e un po’ di quello, insomma si presenta vestito giacca e cravatta fino alla cintola, sotto in mutande, va bene, sguscia, ma quel titolo… santiddio!
Bene. Fine del prologo. Ora, la raccolta pirotecnica di Dyer.
Lasciate ogni aspettativa voi ch’entrate…
Lasciate perdere e affidatevi a Geoff Dyer, che è un po’ come affidarsi a una guida turistica ubriaca o, se volete, assecondare uno che per volontà dichiarata, convintamente, strenuamente, da sempre fa solo e soltanto quello che gli pare, tanto che la sua cifra stilistica di scrittore è proprio quella di essere quello-che-scrive-quello-che-gli-pare-anche-se-non-ne-sa-una-mazza.
Già questo colloca Geoff Dyer in una categoria a parte, quella degli anomali inclassificabili che ogni tanto ti fanno cadere la testa tra le mani, quando si infilano in cunicoli mentali franosi o si perdono in iperbanalità familistiche, ma spesso garantiscono molto divertimento quando galoppano allo stato brado sulle praterie del canone e delle liturgie intellettuali.
Quindi, ci sono due evidenti piani di lettura nella raccolta di scritti qui commentata (non voglio scrivere il titolo, quel titolo!): uno è l’insieme polifonico e talvolta cacofonico ma spesso affascinante di saggi, recensioni e commenti personali dell’autore; l’altro è l’immagine riflessa dell’autore stesso nella rutilante caciara di tutti quei pezzi messi insieme e visti come opera unica e coerente.
Mi è parso che una simile policromia fornisse semmai alla raccolta una specie di unità e coerenza. Più variegati i pezzi, pensavo, più era ovvio che andassero visti insieme come opera di una singola persona, perché l’unica cosa che avevano in comune era che a scriverli era stata appunto quella persona. Se c’era una cosa di cui andavo fiero nella mia non-carriera letteraria er aver scritto libri tanto diversi fra loro; riunire una raccolta di articoli sarebbe stata un’ulteriore prova di quanto i miei interessi fossero disparati. Raccolta che avrebbe anche dimostrato l’inscalfibile fedeltà all’esempio del mio mentore, John Berger.
Da qui apprendiamo alcune cose importanti di Geoff Dyer e di questo volume: è un estroso anti-specialista, non si identifica in una categoria letteraria, considera John Berger il proprio maestro. Tutto perfettamente coerente e, da par mio, adorabile, dolce e sorridente.
Citatemi John Berger e avrete la mia attenzione. Citatelo a sproposito e vi garantite il mio disprezzo. Fatene il vostro maestro e vi abbraccio fraternamente. Quindi Geoff Dyer ha conquistato subito la mia fraterna attenzione e questo fa di me un commentatore del tutto sbilanciato, non oggettivo e fazioso. Ma così è sempre, se qualcuno aveva creduto il contrario si illudeva.
Si inizia con i fotografi, sì perché Dyer, che non è un fotografo, ha scritto a lungo di fotografia in un modo molto bergeriano, commentando ciò che vede, in grande dettaglio, mescolando visione e percezione, acutamente, ma con calore. È la grande lezione di Berger questa, i suoi modi di vedere, Dyer l’ha imparata bene.
E la soggettività palpabile delle foto di Parigi – la sensazione che Ackerman documentasse non ciò che vedeva ma ciò che provava – era ancora più accentuata. Offrendo una reazione cruda, sbalordita a un luogo, sembravano foto dell’interno della sua testa mentre lo visitava. In questo senso davano l’impressione di esigere una reazione altrettanto feroce da chiunque le guardasse. Non potevi limitarti ad ammirare o contemplare quelle foto; dovevi amarle, aborrirle o tutt’e due le cose.
Ai fotografi seguono pittori (Turner), scultori (Rodin), scrittori (Fitzgerald, Lawrence, etc.), tutti commentati con una voce che mi ha ricordato Julian Barnes, inglese come Dyer, e come lui capace di modulare il tono da lirico letterario a leggero divertito, abile nel muoversi tra aneddoti curiosi, citazioni auliche e frammenti di voci dal passato. È piacevole Geoff Dyer perché anti-accademico, bergeriano appunto, quindi parla non declama, ragiona non pontifica e si svacca comodo invece di irrigidirsi impaludato.
Parla anche di musica, jazz e blues, ovvio, e svela un segreto che chi legge Natura morta con custodia di sax forse non coglie: sembra un esperto di jazz, ma in realtà non lo è, non è esperto di niente, solo gli piace molto ascoltarlo. E allora perché non scrivere un libro? Non fa una piega.
Poi inizia a svarionare nel territorio dei “fatti personali un po’ romanzati” e propina alcune perle di noia e banalità sopraffine, anzi, probabilmente vere e proprie marchette letterarie, ma perché negarlo? perché vergognarsene e voler apparire a tutti i costi come verginelle di bianco vestite? Anche le marchette e le fesserie personali un posto in una raccolta lo devono pur avere. Quindi leggiamo di serate a sfilate di moda con tanto di dea nera Naomi Campbell e la infame balordaggine che è stata posta a titolo di questa edizione italiana.
Dalle stalle alle stelle dice chi cammina sulle mani e dopo l’infame fesseria viene uno dei pezzi più lirici e teneri. Le bici bianche per i morti investiti. La sapete la storia? Bé, è bella. E sapete che al Burning Man, nel 2001 venne creato un Tempio delle lacrime e nel 2002 un Tempio della gioia? Chi se ne importa? Nessuno, ma saperlo è più bello di non saperlo.
L’ultimo blocco di saggi/commenti/elucubrazioni si intitola Personali e in effetti parla di fatti personali di Dyer. È un personaggio, una sagoma, un teatrante. Non disdegna la banalità di chiudere con la propria storia d’amore, molto borghese, molto perbene, molto normale, da confortevole mezz’età.
Il pezzo col quale voglio chiudere è invece tratto da Il blocco del lettore (1999), uno dei saggi più belli:
I libri hanno avuto un ruolo cruciale nel determinare come sono diventato ciò che sono. La frase leggermente sgraziata deriva dal sottotitolo di Ecce Homo, dove Nietzsche rilascia la dichiarazione che chiunque abbia imparato tutto dai libri (dai suoi, almeno) condividerà: «La mattina presto, all’inizio del giorno, freschi, all’aurora della propria forza, leggere un libro – bene, per me questo è vizioso!»
Bel libro, molto bello, secondo entrambi i piani di lettura (li ho detti prima quali sono, non te li ricordi già più, vero?).
Note:
– di questo titolo (che io continuo a non voler ripetere per protesta) ne ha scritto anche Claudia Durastanti su IL, magazine de Il Sole 24 Ore.
Ho scritto su anobii e su Leggere e scrivere del Corriere.it su questo bel libro, abbiamo gusti simili, Antunes, De Marchi, Barnes eccetera. Sono d’accordo sul titolo inappropriato, una furberia miope. Del resto hai specificato anche tu che quello che dà il titolo al libro è uno dei saggi meno riusciti. Approfitto per allegare una recensione che ho inviato alla rivista online Minimaetmoralia; riguarda un romanzo uscito quest’anno, a mio avviso notevolissimo, ma passato inosservato, prima che diventi “libro scomparso” sto cercando di farlo conoscere, per il semplice fatto che merita. Ciao e buona serata.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/dovunque-eternamente/
grazie per il nuovo suggerimento
Ottima recensione. Peccato che le nostre traduzioni siano pessime già dal titolo.
Be’ dai, mica tutte le traduzioni sono pessime, anzi, io direi che alcune lo sono.
Per il titolo non è tanto un problema di traduzione quanto di volerlo proprio cambiare rispetto all’originale, perché… mah!… non lo so, non trovo motivi dignitosi per farlo