«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL GRANDE CIRCO DELLE IDEE
Miki Bencnaan
Traduzione di Anna Linda Callow
Giuntina 2014
Qual è la funzione di un romanzo, per usare un gergo metallico da burocrate delle cattedre e degli uffici ministeriali? Lo scopo, la ragion d’essere? A cosa serve un romanzo, escludendo mansioni umilianti come il fermaporta o la tappezzeria per l’immagine pubblica del possessore?
Editor, editori, diplomati classici, narratologi, professoresse di lettere e filosofia, lettori compulsivi o remissivi, misogini e femministe, ognuno avrà una risposta diversa dagli altri, almeno un po’ diversa dagli altri, perché ognuno coltiva nella propria serra termosigillata una opinione personale, com’è logico che sia tra individualità spiccate e litigiose come noi siamo, eventualmente declinato come plurale maiestatico per non offendere nessuno, ma rimane la domanda inconsolabilmente in attesa: A cosa serve un romanzo?
Qualcuno dirà: distrarre. Oppure: incuriosire, oppure: affascinare; oppure: immaginare; oppure: amplificare; oppure: sorridere; oppure: piangere; oppure: stordire; oppure: ammirare; oppure: ascoltare; oppure: accarezzare; oppure: provare dolore; oppure: provare amore; oppure: illuminare; oppure: sognare. Anche molte altre cose verranno dette, ma possiamo fermarci qui, io penso.
Il grande circo delle idee serve a tutte queste cose e anche a molte altre, ma di nuovo, direi che per il momento fermiamoci a queste, poi riprendiamo le altre, con un poco di pazienza.
Miki Bencnaan è meravigliosa (con la “a” finale, è Miki ed è donna) nel raccontare questa storia incantata di ricordi, memorie e fantasie. La storia di due vecchie signore trovate morte per una fuga di gas da una stufa in una camera di una casa di riposo a Gerusalemme. Sono morte abbracciate, una vestita con un logoro travestimento da elefante e l’altra con abiti da bambina.
Due vecchiette impazzite, forse? No, ovviamente. C’è una lunga storia, lo immaginiamo tutti.
Ma come la sa raccontare Miki Bencnaan non se lo immagina nessuno. Nessuno. Garantito.
È una storia che si dipana come tralci di vite che spuntano e si avviluppano, risalgono, si annodano e si separano per poi generare quel frutto dolce. Così è la storia di due bambine e di un pellicciotto acconciato da costume da elefante che attraversano l’orrore d’Europa come creature di fiaba, fino a diventare favola nel ghetto di Varsavia.
Miki Bencnaan sorprende per il numero di fili narrativi che tira e poi riannoda; è un esercizio di equilibrismo letterario il suo, riuscire a tenere in sospeso storie e dettagli, sempre più storie e sempre più dettagli per poi ricapitolarli uno alla volta, come a svelare il trucco, semplice, quasi evidente dopo averlo visto, e per questo stupefacente.
Sorprende anche per stile ispirato di ironia atletica e sagacia fulminea. Tiene alto il ritmo narrativo e ingaggia duelli con il lettore sfidandolo al botta e risposta, che, immancabilmente, vince lei. Grande tecnica e controllo del flusso narrativo (e anche ottima traduzione di Anna Linda Callow).
In tedesco, con la sua limpida voce di bambina, la sua bocca, da sotto la proboscide dell’elefante, pronunciò queste parole: «La storia della minestra di Gasparino». La sua voce si diffuse nell’oscurità fino a che il suo corpo non toccò la luce.
Gasparino era un bamboccio
Assai florido e grassoccio
Egli avea fresca la guancia,
E ben tonda avea la pancia.
Si mangiava ogni mattina
Con piacere la minestrina.
Ma un bel giorno cominciò
A gridar: «Io non la vo’!
No, no, no,
La minestra io non la vo’!»
Pausa.
Inspirazione profonda e sospiro teatrale.
Alzo lo sguardo e ve lo pianto in faccia.
Vi sto guardando. Voi guardate me.
Ci guardiamo in silenzio e voi pensate “Quindi?”
Quindi siamo a pagina 217.
Manca il finale di un libro bellissimo, sorridente e stupefacente. Miki Bencnaam deve stringere gli ultimi nodi per congiungere le due estremità, svelare ancora qualche scorciatoia che ha preso il destino e ritornare vestita col costume da elefante al presente per dare addio a una storia dolcissima che da un fatto di cronaca ha attraversato l’orrore fino a farsi fiaba.
Esatto. L’ultimo filo lo tira e ritorna vestita da elefante a pagina 407.
Pagina 407.
407-217=190
Il finale dura 190 pagine. Vi sembra possibile? “No”, direte. Infatti. Diciamo che il finale che ci si aspetta (plurale maiestatico per non offendere nessuno) è disciolto come un’aspirina effervescente in 190 pagine di acqua fritta.
Ma quindi, tolte quelle che servono per il finale della storia del costume da elefante, cosa sono queste 190 pagine?
Sono un altro libro.
Cioè?
Cioè sono un altro libro, un’altra storia, grossomodo intrecciata con quella del costume da elefante, certo, sovrapposta o scavata sotto, di dentro, non so, non ho capito.
Zavorra. Sacchi di patate. Ruggine. Incrostazioni. Pagine noiose, bulimiche, ingolfate e prive di quel brio stupendo della prima parte, infiacchite da dialoghi stentati e stentorei, flaccide come trippa, talvolta pure petulanti o retoriche o demagogiche, romanticheggianti. Male. Malissimo.
Ora, dico: è comprensibile che un autore possa strafare, cioè abbia difficoltà a fermarsi se non addirittura ad amputare una storia di 400 pagine per ridurla a 250, facendo sparire personaggi non propriamente leggendari – Toro Mal è una inutile macchietta, Pinki un intruso seccatore – facendo sparire mezzi sermoni pacifisti umanisti esperantisti o non so che cosa volesse dire con quella solfa finale dei licheni colorati, tralasciando l’invenzione di bizzarrie un po’ disgustose come gli alberi delle sedie, divorando con ferocia da licantropo la liturgia della parata multi-idealistica vagamente hippy ganeshiana con tanto di aquiloni e elefanti in carne ed ossa che a me è risultata noiosa e soffocante peggio di un telegiornale.
Avrebbe potuto rimanere con la storia concentrata su quello che già aveva narrato in modo meraviglioso nella prima parte. Il libro era finito, mancava la chiusura. E invece quella storia bellissima la sommerge sotto una tonnellata di cineserie, scontrini di supermercato, incarti di caramelle gusto dentifricio, tubetti di maionese spremuti, e non lo so, e basta anche con questo elenco di fesserie che sto scrivendo. La seconda parte è tanto bruttissima quanto la prima parte è bellissima.
Comunque, voglio anche dire che d’accordo che un autore in preda a frenesia creativa può non essere così lucido da tirarsi una martellata sulle dita, ma Santiddio! Perché non l’hanno fermata? Perché non le hanno parlato e spiegato che scrivere un libro bellissimo è una specie di miracolo, scriverne due insieme incollati uno sopra l’altro è del tutto impossibile, oltre che irragionevole. Forse non si è fidata di se stessa Miki Bencnaan? Autostima fragile? Forse non credeva che la prima parte fosse sufficiente… ok ci sta, ma allora perché nessuno gliel’ha detto? “Miki, basta, è stupendo così, il tuo libro è la storia della pellicciotta da elefante, non devi scrivere niente che distragga da quella favola bellissima”. Altroché Il grande circo delle idee, quello è il piagnisteo della parata finale.
Ognuno legge sempre il proprio libro. È una grande libertà questa e quindi per me questo libro rimane e rimarrà sempre La pellicciotta da elefante, la storia indimenticabile di due bambine e il loro destino in forma di un costume, storia che purtroppo finisce a pagina 217, manca l’ultimo capitolo, del quale rimangono solo frammenti sparsi anzi disciolti, non si sa come, per quale incomprensibile processo chimico perverso, in mezzo a 190 pagine di un altro libro di fattura modesta, stile incerto e con tendenza alla noia.
La pellicciotta da elefante è bellissimo e Miki Bencnaan una grande scrittrice e la letteratura israeliana contemporanea continua a fiorire.