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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Evaristo Carriego – Jorge Luis Borges / La canzone del barrio – Evaristo Carriego

Borges-carriego barrio

EVARISTO CARRIEGO
Jorge Luis Borges
Traduzione di Vanna Brocca
Einaudi 2006

LA CANZONE DEL BARRIO
Evaristo Carriego
Traduzione di Alberto Prunetti
Transeuropa 2012

Prima volta che leggo un libro e anche il suo doppelgänger e serviva l’animaccia nera di Borges per farmelo fare, e pure farmi leggere a voce alta, che di solito non leggo a voce alta, perfino col recitativo drammatico. Serviva Borges, evidentemente. O forse, non evidentemente, è capitato Borges, vai te a sapere chi è la causa e chi l’effetto, chi viene prima e chi arriva dopo, chi mastica e chi sputa.

Dicevo Borges.
Mi inquieta pensare a Borges. Fossi uno che crede alle balle esoteriche direi che certamente attorno a Borges c’è un sospiro di negatività, ma poiché io non credo alle balle esoteriche devo arrampicarmi sui dirupi ipotetici della psicointerpretazione fatta di coriandoli.

A me Borges ha sempre fatto paura. Per questo lo leggo con parsimonia, con timore, un libretto qui e poi lascio passare anni per leggere un libretto là, poi ci penso, poi ripenso a questa figura per me misteriosissima, questo concentrato di mistero umano e di profondissima conoscenza indicibile.
Proprio così, Borges a me sembra molto più antico di quel che è, a me sembra medievale, un alchimista medievale, uno che sa molto più di quello che può rivelare e la scrittura di Borges in effetti è sempre enigmatica, labirintica, sorprendente quando salta dentro la fantascienza o alle burle di Don Isidro Parodi; scrittura insolitamente concentrica con sensi arcani acquattati sui bordi delle parole, sotto i sassi, ne rivolti uno, un sasso-parola e salta fuori una nuova immagine tormentosa, malinconica, sulfurea, a tinte cariche di rossi e di viola. Borges non so come afferrarlo, è un rettile che rotea gli occhi e slingua, allora gli giro intorno, lo squadro da tre passi di distanza, come fanno gli scandinavi, poi afferro gli Evaristo Carriego, ne faccio un tutt’uno e inizio la lettura.

Leggo.

Poi ancora,

Quaranta carte vogliono sostituirsi alla vita. Scivola tra le mani il mazzo nuovo o s’inceppa quello vecchio: ciarpame di cartone che sta per prendere vita, un asso di spade che diverrà possente come don Juan Manuel, cavallini panciuti a cui Velasquez si ispirò per i suoi. Lo smazzatore rimescola quelle figurine. La cosa è facile a dirsi e anche da farsi, ma quanto di magico e di straordinario vi è nel gioco – nel fatto stesso di giocare – si manifesta nell’azione.

Misteri. Parole come misteri calati da un mazzo che Borges, smazzatore di segreti, sparpaglia su fogli, senza spiegare, senza concedere aiuti, sibilando. L’Evaristo Carriego ricreato da Borges, partorito da Borges, è poeta del barrio, poeta del popolo bonaerense più bestiale, incrociato e intrecciato, criolli e gringos, spagnoleschi e italianeschi, anime simili quanto distanti, raggrumati sull’estuario e con alle spalle il grande ronfare dell’entroterra, della steppa gauchesca, dell’abominio e della natura, della preistoria che si incunea nella storia.

Quanto a me, io penso che la successione cronologica non si possa applicare a Carriego, uomo che della sua vita fece una continua conversazione e un interminabile camminare. Cercare di catalogarlo, seguire l’ordine dei suoi giorni, mi sembra impossibile; meglio andare alla ricerca di ciò che vi è di eterno in lui, di ripetuto. Solo una descrizione fuori dal tempo, basata sul sentimento, può restituircelo.

Maledetto Borges! Fare di un mentecatto un dio! È il divertimento più grande non è vero? Convincere, affabulare, ipnotizzare tutto il mondo che dalla feccia del barrio tu puoi far nascere una figura sublime, un conquistatore, un eroe impossibile… Evaristo Carriego non esiste! Tu l’hai inventato!

Tango.
Signore, il tango non fa per voi. Sappiatelo.
Signori, il tango vi sovrasta. Siatene consci.

Dal capitolo La canzone del quartiere, scrive Borges riferendosi a Carriego:

La sua didattica è piuttosto oscura: ogni nuovo tango, redatto nel sedicente linguaggio popolare, è un enigma, cui non mancano le varianti perplesse, i corollari, i passaggi oscuri e la meditata diversità di opinioni dei commentatori. La nebulosità è logica: il popolo non ha bisogno di aggiungersi colore locale; l’imitatore suppone il contrario, e finisce col passare la misura. Nemmeno per quel che riguarda la musica è il tango la naturale espressione dei quartieri periferici; lo è stato semmai dei bordelli e nulla più. Autenticamente rappresentativa è solo la milonga. La sua versione abituale è un saluto interminabile, una cerimoniosa gestazione di pleonasmi sdolcinati, rafforzati dal palpito grave della chitarra.[…] Il tango appartiene al tempo, alle intemperanze e contrarietà del tempo; l’apparente febbriltà della milonga fa ormai parte dell’eternità. La milonga è uno dei grandi modi di conversare di Buenos Aires; il truco è l’altro.

E scrive Evaristo Carriego nel suo La canzone del barrio:

IL GUAPPO

Il quartiere lo ammira. Cultore del coraggio,
conquistò a lungo andare fama di audace;
si impose in cento risse tra i compari
e dalle prigioni uscì consacrato.
[…]

Canta Carriego, canta come un menestrello stonato i trionfi di fango degli abitanti del barrio, canta le vite che solo nelle sue parole diventano degne, canta gli amori che di miseria si riempivano.
Canta dei guappi e dei delinquenti, delle sartine, delle Rosaure ingannate dal bel tomo e delle Lucile inchiavardate dal vecchio satiro, è un canto zoppo che svolta nei vicoli, scende le scale e risale le soffitte, Carriego canta e Borges lo ascolta con l’orecchio deforme, canta di donne e banditi, di lotte e di amori, canta del senso della vita, come il barrio rivela a chi vuole ascoltare.

Conclude Jean Fajean, che non so chi sia, solo so che ricama l’ultima giravolta barocca attorno a Evaristo Carriego e il tango del barrio, ormai scomparso, ormai passatempo atletico per borghesi e non più ballo di puttane e magnaccia. Ne canta il tramonto, con l’ultima immagine del grande tango A Evaristo Carriego!, schifoso nella versione ballata di Carlos Gavito, sublime in quella di Osvaldo Pugliese e Astor Piazzolla.

Eccola qui

Note:

– l’introduzione di Alberto Prunetti e l’intera postfazione di Jean Fajean sono leggibili su Carmilla e se state a sentir me, io vi consiglio moltissimo di leggerle.

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