«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
FORSE ESTHER
Katja Petrowskaja
Traduzione di Ada Vigliani
2014 Adelphi
Forse Esther è un bel libro. Innegabilmente. È la storia di una ricerca a ritroso, nella storia di una famiglia, quella dell’autrice, come una navigazione fluviale controcorrente. Un po’ mi ha ricordato Alice Albinia de Imperi dell’Indo. Là una giovane donna che risale il fiume millenario attraversando terre pericolose, quasi primitive ai nostri occhi eppure dense di storia, di memoria e di senso. Qui un’altra giovane donna, Katja Petrowskaja che risale il fiume della storia di una famiglia ebraica-ucraina-polacca e lo fa partendo dalla propria condizione del momento di tedesca acquisita, che scrive in tedesco, saltando sui diversi rami della propria storia famigliare: una volta ucraina, poi ebrea, poi polacca, di nuovo ebrea e ucraina, poi polacca ed ebrea, ucraina e tedesca e così via, fino, in certe parti del libro, a nascondere i riferimenti culturali per cui non si capisce più se stia parlando come ebrea o ucraina o polacca o tedesca o semplicemente europea o semplicemente come donna adulta. Questo straniamento e annebbiamento dei riferimenti culturali è forse il colpo di genio di Katja Petrowskaja per dare al testo un espressione del tutto personale.
Siamo in ogni caso sotto le volte velate del grande archetipo della ricerca delle sorgenti, che quasi mai si trovano davvero perché giunti nelle loro vicinanze si scopre che nessuno sa dove siano, oppure nessuno le distingue tra tante simili o magari sono talmente inaccessibili da poter essere solo immaginate. Questo in ogni caso, per sorgenti sgorganti da una roccia o per sorgenti che affondano in un tempo remoto.
L’archetipo della ricerca delle sorgenti prevede che il cammino a ritroso sia sempre lento e faticoso, incerto e costellato di snodi e biforcazioni. Prevede molte pause di riflessione e dubbi, angosce e gioie. Prevede inoltre l’incontro con persone che diventano personaggi della storia a ritroso, archetipe pure loro. E infine, per quel che adesso mi viene in mente, prevede che la voce narrante sia calda, umana, gentile, mai accademica o troppo didascalica o addirittura pignola, pena il scivolamento nel diario di viaggio o, ancor peggio, nel romanzo storico o, peggio del peggio, nell’autobiografia pedante e inutile.
Un libro sulla ricerca delle origini è quindi un’opera di equilibri e impulsività. Forse Esther ci riesce bene dosando i personaggi bizzarri incontrati da Katja Petrowskaja nella ricostruzione dell’albero genealogico e con esso delle atmosfere del tempo, delle famiglie e delle loro peripezie; intervalla i personaggi con se stessa durante le ricerche e gli spostamenti in Europa Orientale soprattutto, ma non solo, verrà gettato un ponte con il Texas a un certo punto, e chi legge non deve far altro che seguirla, ascoltarla, lasciarsi accompagnare. È pura narrazione. Un bel libro Forse Esther, sicuro.
Ma io volevo parlare di un’altra cosa in realtà.
O per dirla meglio, io ho un dubbio, nel senso di una domanda, un’incertezza, una questione alla quale non so rispondere, almeno non con la necessaria convinzione, e quindi volevo parlare di questo dubbio e ribaltarlo su di voi. Poi voi fateci quello che volete, chiaro.
Volevo parlare di un altro archetipo: la storia ebraica.
Ho detto “storia ebraica”, non “Storia Ebraica”, cerchiamo di capirci. Parlo dei racconti e romanzi riconducibili alla narrazione di storie di autori, personaggi o famiglie di tradizione ebraica, chiaro?
Benissimo. Allora Forse Esther è una storia ebraica e l’archetipo della storia ebraica pervade il mondo editoriale e la tradizione del racconto e del romanzo moderno.
Sono moltissimi i libri riconducibili all’archetipo storia ebraica. Tanto per citarne qualcuno che ho letto di recente: Il grande circo delle idee di Miki Bencnaan, tutti i libri di Bernard Malamud e Vasilji Grossman, e poi ancora Traducendo Hannah di Ronaldo Wrobel e anche i racconti di Englander. Ma questi non sono che pochi esempi.
Se avete prestato attenzione, avrete notato che non ho citato autori come Yoram Kaniuk, S. Yizhar o Yehoshua Kenaz i cui libri (quelli che conosco io, naturalmente) non rientrano nell’archetipo della storia ebraica bensì in quello delle storie nazionali, nel loro caso della storia israeliana.
Perché mi interessa questa faccenda dell’archetipo della storia ebraica, forse vi starete domandando, e dove voglio andare a parare, sicuramente vi state domandando.
Mi interessa perché le storie ebraiche sono diventate a tutti gli effetti un sottogenere letterario del romanzo o dei racconti, e uno dei principali se non proprio il più corposo di tutti, nel senso che sono talmente diffuse, talmente note, talmente di eccellente qualità letteraria e soprattutto sempre in continuo rinnovamento da costituire, a mio giudizio, un capitolo a se stante nel panorama letterario dal dopoguerra a oggi. E tutto questo è, per molti versi, sorprendente.
Mi sorprende la capacità di reinventare sempre la stessa storia che hanno gli autori di tradizione ebraica, ma sempre con nuova immaginazione e sempre riesumando le stesse figure retoriche e memorie storiche; mi sorprende la convinzione indistruttibile con la quale producono queste opere nel solco di un canone narrativo che tuttavia sembra non ingessarsi, non mummificarsi in convenzioni e balletti, mi sorprende la capacità di riproporre scenari ormai proposti un’infinità di volte come in un gioco di specchi: le memorie tramandate dello shtetl e dei pogrom dell’Europa Orientale, gli echi dello yiddish che riemergono, la Polonia come paese ebreo per eccellenza e ancora le tradizioni delle festività, dei riti di passaggio, la sinagoga e il rabbino, la comunità, i legami di parentela sopravvissuti alla diaspora, la Shoah, naturalmente, grande frattura epocale che ha definito una nuova origine dell’archetipo delle storie ebraiche. Da tutto questo coacervo di tasselli comuni, gli autori da decenni trascrivono la propria, l’ennesima, ricerca delle origini, lo scavare nel tempo per far riemergere quei legami tra famiglie, l’identità ebrea e la nazionalità europea o americana, la modernità dei contemporanei che si specchia nelle usanze arcaiche che via via riemergono.
Questi sono alcuni o molti degli elementi che io credo costituiscono l’archetipo della storia ebraica e motivo per il quale questa è una categoria a parte nella narrativa moderna, senza equivalenti, io penso.
La storia ebraica non è paragonabile alla cosiddetta letteratura di genere o alle letterature a sfondo sociale e antropologico, siano esse letterature femministe, operaiste, terzomondiste, così come alle letterature connotate geograficamente: caraibiche, nordeuropee, della frontiera americana, mediterranee, africane, latinoamericane o anche israeliane. Qualcosa di vagamente simile, ma in scala ridotta, potrebbe essere l’archetipo delle storie postcomuniste, ad esempio scritte da autori tedeschi dell’ex-Germania Est.
Le storie ebraiche sono un unicum oggi spesso abusato dal mercato editoriale, soprattutto americano che, anche a seguito dell’infausto influsso culturale delle buffonate cinematografiche del campione del radical-chicchismo che è il tardo-Woody Allen, le rimastica in serie e le rigetta sugli scaffali.
Togliendo le perversioni mercantiliste dei pianificatori del business, rimane però il fatto che anche un libro come Forse Esther, che non racconta nulla di veramente nuovo, la cui autrice non ha niente di evidentemente originale da raccontare rispetto alle decine di storie ebraiche che l’hanno preceduta, se non ricorrendo alla consueta bizzarria e originalità di molti avi di famiglie ebree, riesce a reinventare un canone consolidato in modo da risultare fresco, piacevole, originale, divertente, arguto e, questo in modo quasi provocatorio, incredibilmente intelligente.
Ecco, se devo trovare una caratteristica comune alle storie ebraiche è che praticamente sempre, tolte le perversioni di cui sopra, si ha l’impressione di leggere una storia scritta da uno o una intelligente per gente intelligente.
Per questo io dico: Lunga vita e prosperità alle storie ebraiche.
Perfettamente d’accordo, il rischio delle memorialistica ebraica è di reintrodurre il lettore in un mondo bizzarro, intelligente e sempre simile a se stesso, e per altri versi, se pensiamo alla Shoah, solenne e annichilente per cui il tema è come se mangiasse la possibile valutazione dello stile e della voce dell’autore. In Forse Esther, a mio avviso, questo non succede perché non sono le storie ebraiche raccontate, l’anima del libro, ma lo sbadato divagare, alla Sterne, dell’autrice.