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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Amore a Venezia, Morte a Varanasi – Geoff Dyer

venezia varanasi - dyer

AMORE A VENEZIA, MORTE A VARANASI
Geoff Dyer
Traduzione di Giovanna Granato
2009 Einaudi

… non c’è due senza tre e il quattro vien da sé… mannaggia a chi ha inventato questa filastrocca che porta una iella micidiale, ogni volta che pensi questa cretinata… non c’è due senza tre… ogni volta ti torna indietro come una pisciata controvento.
E qui veniamo a Mr. Geoff Dyer, pirotecnico affabulatore quando assembla quadretti appena schizzati come in Natura morta con custodia di sax e Il sesso nelle camere d’albergo, quanto imbarazzante venditore di patacche come in questo strapessimo Amore a Venezia, Morte a Varanasi.

Non voglio girarci intorno e neppure infarcire la questione di subordinate: questo è uno dei peggiori libri che ho letto nel 2014, un libro talmente modesto che se l’avesse scritto un italiano avrebbe indifferentemente potuto vincere qualche premio liquoroso o essere respinto con pernacchie da editor vanitosi, ma di certo una grossa fetta di lettori civilizzati (esclusi quindi quelli che votano le paludose classifiche dei migliori libri dell’anno) l’avrebbe ridicolizzato, sputazzato e scaracchiato come un Fabio Volo qualsiasi.
Ripeto perché sia chiaro che non sono in preda a un raptus: se Geoff Dyer di Amore a Venezia, Morte a Varanasi deve considerarsi uno scrittore degno di considerazione allora lo stesso dicasi per Fabio Volo. Viceversa, se sputazzate su Fabio Volo allora per coerenza, sputazzerete su questo Geoff Dyer.

Chiarito il mio giudizio generale, passo a elencare didascalicamente i motivi di tanto disprezzo:

1) la quantità e il livello di banalità toccati in queste pagine sono strepitosi;
2) la noia che producono queste pagine è iperbolica.

Il libro si compone di due parti, che non ho capito se siano collegate o solo affiancate o che cosa, nel senso che alcuni protagonisti si interrogano sulle somiglianze tra Varanasi e Venezia… l’acqua, la decrepitezza, il senso di decadenza e altre banalità del genere… e le due storie si concludono con il protagonista che pontifica (nel primo caso solo pontifica, nel secondo lo mette anche in pratica) sulla necessità di esibirsi seminudo in pubblico e sui benefici derivanti dall’immergersi in acque luride.
Non sono neppure certo che il protagonista delle due parti sia proprio lo stesso o è solo lo stesso tipo umano di protagonista, probabilmente lo dice o è chiaro dalla lettura e io me lo sono perso, ma francamente risolvere questo dubbio mi sembra del tutto superfluo.

La prima parte si intitolerebbe Jeff in Venice che Einaudi, come da suo antico vizietto spolvera di cipria trasformandola in Amore a Venezia, e vede come protagonista tal Jeff, quarantacinquenne giornalista londinese di una rivistucola d’arte che si tinge i capelli e parte per la Biennale di Venezia.

Ingredienti usati da Dyer: intellettuale di mezz’età inglese orbitante nel mondo glamour dell’arte contemporanea, fallito personalmente e professionalmente ma supposto intelligente e acuto, cinico e depresso quel tanto che basta per mimetizzarsi nel contesto, frequentatore di feste dove i presenti sono tutti cloni angloamericani, echi della decadenza dell’Occidente e predominio cultural-mondano angloamericano, profusione di bella gente, belle donne, ovvero la stranota manica di imbecilli delle mostre internazionali d’arte contemporanea… e poi anche flirt, molte bevute, amoreggiamenti da Hollywood in versione American Decadence, sesso da clip di YouPorn con livello di erotismo da ingroppamento tra macachi, sniffate di coca, mangiate di cibi sofisticati, molti Vip, il bouquet completo di banalità della peggior letteratura angloamericana; e poi terrazza del Guggenheim Vs. terrazza del Gritti affacciate sul Canal Grande, e generale filosofia del frega-un-cazzo-di-niente.

Preparazione: mescolate e scuotete per un po’, finché vi va, ma senza troppa lena e convinzione che tanto non serve a niente affannarsi per questa roba.

Risultato: una schifezza abominevole già scritta almeno un milione di volte in libercoli, sceneggiature, racconti, romanzi, e via elencando l’intero cumulo di spazzatura letteraria e cinetelevisiva americana. Roba che a confronto lo stereotipo dell’italiano pizza e mandolino è uno slancio di originalità da avanguardia surrealista.

Tanto per capirci, il notevole (altrove) umorismo di Dyer si coagula nel seguente scambio di battute riferito al difetto di pronuncia del personale italiano dell’albergo che ospita i cialtroni inglesi. Una robaccia indegna perfino di un cabarettista della Sagra del Somaro in Umido:

– Avrò capito male. Quelli del mio albergo non lo chiamano heat. Lo chiamano eat. E domani sarà otter.
– L’eat sarà otter?
– Esatto.

Questo il livello deprimente dei dialoghi, mentre il messaggio “da portare a casa”, ovvero la filosofia del protagonista Jeff, il distillato di tutto l’inutile racconto dei sollazzi festaioli di questa banda di cerebrolesi angloamericani si riassume nella memorabile osservazione di Mr. Banalità:

Una forma d’intimità strana, moderna – niente affatto vittoriana – che rendeva più facile leccare il culo di una persona che chiederle quand’era possibile rivederla.

Dyer fa rimpiangere il tempo perso a leggerlo. Che mediocrità spacciata per letteratura!

La seconda parte è Morte a Varanasi. Ritroviamo lo stesso giornalista quarantacinquenne, questa volta brizzolato, ma sempre mezzo fallito e ridicolmente caulfieldiano (mammamia, anche solo accostare questo Dyer a Salinger è come paragonare uno scaracchio verdastro alla Cappella Sistina). Come già detto, non sono sicuro che sia lo stesso protagonista della prima parte, ma non fa nessuna differenza.

Cerco di essere breve. Questa volta il cerebroleso giornalista londinese va a Varanasi, ai più probabilmente nota come Benares, la città dei morti, delle pire funerarie sulle rive del Gange e tutto il resto della superstizione o religione indù, fate voi. Il massimo della banalità quando si parla di India, più stereotipo di così è impossibile.

Ingredienti usati da Dyer: il cinico inglese con i suoi rottami di presunzione occidentale, decadenza indiana, misticismo indiano, cialtroneria indiana, sovraffollamento indiano, truffatori indiani, sceneggiate religiose indiane, il Gange fiume tanto sacro quanto lercio, le rive del Gange a Varanasi, i ghat, miscuglio di stabilimento balneare in rovina del litorale di Ostia e un altare sacrificale pagano, le solite iperbanalità da scrittore senza idee che si arrabatta pigliando un po’ di qua e un po’ di là, probabilmente pompato come un palloncino da fiera da agenti, editor e altri loschi figuri affinché produca “Il Nuovo Romanzo di Geoff Dyer”.

Preparazione: cottura a fuoco lento per ottenere la stucchevole conversione da cinico inglese a santone autoctono, spruzzare con getti di ironia sforzata e abbondanti manciate di stereotipi.

Risultato: una schifezza abominevole già scritta almeno un milione di volte in libercoli… etc. etc. tutto come per la prima parte.

Imbarazzante Geoff Dyer per la devastante pochezza e assoluta banalità, ovvietà, mancanza di originalità, gusto e personalità.
Amore a Venezia, Morte a Varanasi merita il macero senza rimpianti, Geoff Dyer romanziere si rivela un solenne bluff e oggi è Natale, per questo mi sento buono e non aggiungo altri meritati insulti.

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Questa voce è stata pubblicata il 27 dicembre 2014 da in Autori, Dyer, Geoff, Editori, Einaudi con tag , , , .

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