«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LE BRACI
Sándor Marai
Traduzione di Marinella D’Alessandro
Adelphi 2000
Un testo che è un classico del ‘900 e che, ora lo riconosco, colpevolmente leggo con grande ritardo per aver sempre trascurato Sándor Marai, non so bene per quale motivo, nonostante fossi a conoscenza del nome e della sua presenza tra gli autori del periodo a me più caro per le mie letture, quello che va dal primo dopoguerra al secondo, fino agli anni ’60, ultimo decennio della vecchia Europa. Lì dentro quegli anni ci sono i Maestri. Ma questa è storia nota a tutti.
Le braci è un libro che per sua stessa costituzione, per come respira fin dalla prima pagina e per ogni parola che lo compone entra con passo grave e pesante nel territorio dei classici, qualunque definizione vogliate adottare di classico. Per conto mio adotto quella (non ricordo se di Coetzee o citata da Coetzee) secondo la quale (e anche secondo la mia libera interpretazione e lacunosa memoria) un classico è un libro che continua a essere letto per generazioni senza perdere forza. Una definizione funzionale potremmo forse dire, che esula da eventuali giudizi di merito o di stile.
Le braci mi pare che rientri bene in una tale definizione perché nonostante il peso degli anni (fu pubblicato nel 1942 con un titolo che letteralmente sarebbe Candele che bruciano fino in fondo, più evocativo del semplice Le braci inventato da Adelphi) e delle trasformazioni del mondo, nonostante non esistano più personaggi come quelli narrati da Marai, ovvero non esista più praticamente nulla, tantomeno la lingua e gli usi e le atmosfere, di ciò che compone il quadro de Le braci, nonostante tutto, il grandioso monologo di Heinrich, il vecchio generale protagonista della storia, rimane e rimarrà vivo ancora per molte generazioni di persone che leggendolo, scorrendo le lunghe pagine che riempie, seguendo quel pensiero che dapprima appare desueto e forse anche un po’ ridicolo come può apparirla un’anticaglia, poi via via che Heinrich parla, sposta i frammenti, li colloca in prospettiva, ricostruisce un’attesa lunga quarant’anni e recita parole che sono risuonate nei cuori di molti di coloro che le leggono, ecco che allora la grandiosità e la maestosità di quel monologo rivolto al proprio avversario del quale la penombra rivela solo la sagoma immobile e paziente, rivolto anche alle proprie memorie, al proprio cuore e alla propria vita, quel monologo strepitoso appare nella sua vera luce e avvolge come una coperta tiepida il lettore.
C’è troppa tensione nel cuore degli uomini, troppa animosità, troppa sete di vendetta. Guardiamo in fondo ai nostri cuori: che cosa vi troviamo? Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire a estinguere le braci. Perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso dagli altri uomini? E noi due, che siamo vecchi e saggi e abbiamo raggiunto la fine della nostra vita, anche noi siamo assetati di vendetta… vendetta contro chi? Ciascuno contro l’altro, o contro la memoria di qualcuno che non esiste più. Sono passioni dissennate. Eppure animano i nostri cuori. E allora perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso da un mondo che è pieno di incoscienza e di invidia, di astio e di prepotenza? Ci sono giovani che si precipitano, con la baionetta in canna, contro giovani di nazionalità diversa, uomini che si scannano a vicenda, regole e accordi un tempo sacri che vengono calpestati. Soltanto le passioni vivono e bruciano e chiedono vendetta al cielo… Sì, soltanto la sete di vendetta. Sono tornato dalla guerra, dove avrei avuto occasione di morire ma non sono morto, perché aspettavo di potermi vendicare.
Le braci è un libro memorabile perché inestinguibile è l’illusione degli uomini di fare i conti con il proprio destino, il delirio di tutti coloro che hanno sofferto di potersi trovarsi un giorno a pareggiare il bilancio della sofferenza patita affrontando un presunto colpevole, atterrandolo, maledicendolo e godendo del dolore che gli si infligge. È il volto perverso della Giustizia quello descritto nel grande monologo di Heinrich, il volto irrazionale, emotivo, passionale, il volto umano della Giustizia.
Nella sua drammatica freddezza, nel suo ragionare con ponderazione, nei modi educati e incruenti e perfino nella capacità di lasciare che il tempo scolori vecchi rancori, il monologo de Le braci è il trionfo della quasi disumana capacità del cuore umano di perseverare nella pulsione di un amore o di sanguinare per un amore spezzato oltre ogni barriera di tempo, di età, scavalcando guerre, drammi e sconvolgimenti di una vita.
Gli uomini contribuiscono al loro destino,lo stringono a sé e non se ne separano più. Agiscono così pur sapendo fin dall’inizio che il loro modo di agire porterà a risultati nefasti. L’uomo e il suo destino si realizzano reciprocamente modellandosi uno sull’altro. Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare. Non c’è infatti essere umano abbastanza forte e intelligente da saper allontanare, con le parole o con i fatti, il destino infausto che deriva, secondo una ferrea legge, dalla sua indole e dal suo carattere.
Punta il dito accusatore, Sándor Marai, suonando però allo stesso tempo fatalista con questo destino che non colpisce alla cieca ma entra da una porta lasciata spalancata da coloro che, per indole e carattere, non sarebbero riusciti ad accostarla. Sembra voglia dire che il destino infausto di un uomo si realizza come un incendio nella foresta: serve una scintilla, una piccola brace lasciata casualmente incustodita per innescarlo e da quella la violenza delle fiamme si alimenta degli sterpi secchi lasciati colpevolmente ma inevitabilmente a terra.
Ma se così fosse, se avesse ragione Marai, per certi uomini, per quelli che come Heinrich attendono una vita per pretendere di vendicarsi davanti al proprio destino, tutto si ridurrebbe a giocarsi la sorte su quella piccola scintilla o brace iniziale: basta che ne sfugga una per far divampare l’incendio; è indispensabile che non ne sfugga nessuna per una sorte clemente. Come mettersi nelle mani di una Provvidenza avara che di rado concederà deviazioni da una natura segnata e mai fornirà spiegazioni all’uomo che pretende vendetta.
Forse si può leggere in questo modo, certamente si può leggere anche diversamente il monologo de Le braci. Forse una risposta Marai la offre, nascosta dove non la cerca mai chi pone domande, chi computa bilanci, chi pretende risarcimenti dalla vita, chi vuole riscuotere il credito del proprio dolore.
Oppure la offre in un giudizio che gli fu attribuito a proposito del libro, da lui stesso ritenuto “troppo romantico”.
Non lo so. Quel che è certo è che il grande monologo di Sándor Marai continuerà ancora a lungo ad affascinare, turbare, irrigidire, far avvampare o gelare, bloccare il respiro o accelerarlo, perfino irritare per eccesso di romanticheria o altri eccessi, in ogni caso continuerà a riempire i pensieri di moltissimi lettori ancora per lungo tempo, oltre a me e a voi.
Ma come tutti i baci umani anche questo, alla sua maniera tenera e grottesca, è la risposta a una domanda che non è possibile affidare alle parole.
I lettori di Màrai vi saranno grati. Fare i conti con il “nemico “, alla fin fine , è un redde rationem con noi stessi. Così il perdono è un qualcosa che concediamo prima di tutto a noi stessi.
A me è piaciuto anche La sorella, un viaggio in interiore quando la vita ci mette alla prova.Indimenticabili le tre evanescenti sorelle.
Buon martedì.
un classico ha sempre qualcosa da dire, forse lo ha detto Calvino…!?! Buon 2015 !
Buon 2015 anche a te!