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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

La città assente – Ricardo Piglia

citta assente - piglia

LA CITTÀ ASSENTE
Ricardo Piglia
Traduzione di Enrico Leon
SUR 2014

Quando si legge un libro lo si può fare per diverse ragioni: ci sono buone ragioni, ragioni che sembrano buone e ragioni che non sappiamo nemmeno noi se siano buone o non buone. In tutti i casi, qualunque sia la categoria di ragioni nella quale si rientra, tali ragioni, molto probabilmente, sono delle invenzioni belle e buone, per non dire delle panzane… panzane… ah! quanto mi piace questo tono da anni ’50… ovvero vi siete inventati tutto quanto, buone, apparentemente buone o chissà se buone o non buone ragioni.

Quindi, chiarito questo aspetto non del tutto trascurabile, se volete che vi dia una buona ragione per leggere La città assente di Ricardo Piglia, io, senza titubare ma quasi mettendomi sull’attenti e sbattendo i tacchi dico: Per la prefazione di Tommaso Pincio!

Eccertamente, visto che Pincio è indubitabilmente (il mio 2015 è iniziato con la mania per gli aggettivi e avverbi con prefisso in-, vanno bene anche in-ventati, in-ventatamente ad esempio, non sono un discepolo fedele del Devoto-Oli) un grande scrittore italiano contemporaneo, uno dei pochi immagino, comunque uno che vale sempre la pena leggere e infatti vale la pena leggere la sua prefazione al libro di Piglia, perché ha qualcosa da dire che merita di essere ascoltata, di solito si cita sempre solo la prima parte dell’espressione, senza la condizione… Lui ha qualcosa da dire!… Io ho qualcosa da dire!… certo certo, come quasi tutti, ma una interpretazione bifolca della libertà di espressione o del Primo Emendamento ha fatto sì che la parte condizionale decadesse, apparentemente, mentre è invece indispensabile anche per mantenere una coerenza formale: che merita di essere ascoltata! E da chi? Bè, da chi è faccenda personale, ognuno se la veda con l’individuo verdastro rettiliano che incrociate davanti allo specchio.

Per mio conto, Tommaso Pincio merita di essere ascoltato e la sua prefazione è in effetti molto bella. Tanto che l’ho letta due volte: una prima del testo e una dopo il testo. La prima mi ha incuriosito, la seconda mi ha confortato e supportato in quello che mi apprestavo a fare: rileggere una seconda volta anche il testo poiché, come dicono in certi salotti letterari sofisticati a ovest del fiume Piave, non c’avevo capito ‘na mazza.

Dice Pincio, mirabilmente come mai io potrei fare:

Dei quattro modi essenziali di leggere La città assente, l’approccio più immediato è naturalmente quello di prendere il romanzo per come sembra presentarsi: la storia di una macchina. La struttura del libro è tale, però, che dopo poche pagine prende forma una possibilità alternativa: quella di ribaltare i termini della questione, vedere cioè il romanzo stesso, se non il libro in quanto assoluto, come una macchina di storie. Questa seconda ipotesi presuppone poi un’ultima via, nella quale i due precedenti modi confluiscono, sicché la possibilità della storia di una macchina e quella di una macchina di storie diventano una cosa sola.
Il lettore mediamente attento non mancherà di notare che, dei quattro modi annunciati, soltanto tre sono stati di fatto indicati. Dunque, qual è il quarto? In che consiste l’imbroglio? A un lettore esperto, oltre che mediamente attento, non dovrebbe tuttavia sfuggire che storie e macchine si somigliano. Dovrebbe sapere che i critici ricorrono spesso a metafore meccaniche per rimarcare le qualità di una storia ben congegnata. Il che è ragionevole: una storia perfetta non è forse un meccanismo perfetto?

Da qui comprendiamo alcuni tratti in-dispensabili per cercare di afferrare questo testo sgusciante e in-forme: ci sono storie e ci sono macchine, poi ci sono storie che parlano di macchine e macchine che producono storie e anche macchine che producono storie che parlano di macchine che producono storie. In-negabilmente un pasticcio complicato. La città assente è un libro complicato, in-dubbiamente. Devo ben dirla questa cosa, altrimenti come giustifico l’averlo dovuto leggere due volte?

Piglia è scrittore raffinato e cerebrale. Talvolta produce grandi opere complicate, ad esempio Respirazione artificiale, meraviglioso; altre volte produce complicazioni in-utili, come Bersaglio notturno. Per La città assente, sempre riprendendo Pincio, la macchina che produce storie partendo da una prima generatrice, il William Wilson di Poe, le in-treccia e le in-terrompe “alla stessa maniera di vie, viali e vicoli in un tessuto urbano” fin quando non sai più, tu lettore, in quale storia ti trovi, chi la sta in-arrando, e pure chi sia la macchina, donna, fu moglie, poi resa macchina, da Macedonio Fernández, che si aggira per il romanzo come una presenza elusiva ma in-eludibile, misteriosa, quasi soprannaturale ma non in-naturale, lo scrittore nel quale convivono tutte le storie di Buenos Aires.

È un libro senza appigli, che sfugge e ruota, tanto più cercate di afferrarlo, tanto più vi sguscerà via. Per questo affascina o disorienta, in-curiosisce o in-fastidisce, lo rileggete oppure lo rigettate, può annoiare moltissimo o può rimanervi nelle narici a lungo come l’odore di una domanda in-espressa, può sembrare Un Grande Mah o un piccolo gioiello di in-gegno letterario – secondo Tommaso Pincio è un “vorticoso capolavoro”, secondo me è un vaticinio delfico in forma di in-racconto -, di certo è bellissimo vedere l’in-gegno letterario che si apre la strada anche tra le rocce più compatte.

All’inizio, quando capirono di non poterla ignorare, quando si venne a sapere che perfino i racconti di Borges provenivano dalla macchina di Macedonio, che stavano addirittura circolando nuove versioni riguardo a ciò che era successo nelle Malvine, allora decisero di portarla al Museo, di creare un museo per lei, comprarono l’edificio della RCO e lì la esposero, nella sala speciale, per vedere se riuscivano ad annullarla, farla diventare quello che si chiama un pezzo da museo, un mondo morto, ma le storie si riproducevano dappertutto, non riuscirono a fermarla, racconti e racconti e racconti. Sa come ebbe inizio? Ora glielo racconterò. Inizia sempre così, il narratore è seduto, come me, su una poltrona di vimini, si dondola, con la faccia rivolta verso il fiume che scorre, è sempre stato così, dal principio, c’è qualcuno dall’altra parte che aspetta, che vuole vedere come continua.

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Questa voce è stata pubblicata il 24 gennaio 2015 da in Autori, Editori, Piglia, Ricardo, SUR con tag , , , , , .

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