2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Pietroburgo – Andrej Belyj

pietroburgo

PIETROBURGO
Andrej Belyj
Traduzione di Angelo Maria Ripellino
Adelphi 2014

Pietroburgo fu pubblicato da Einaudi nel 1961 (decennio d’oro dell’editoria italiana) nella traduzione di Angelo Maria Ripellino. Poi, un giorno, non so quale sia questo giorno, scomparve dagli scaffali. Riappare pochi mesi fa nella stessa veste di allora, stessa traduzione di Ripellino (Ripellino merita un discorso tutto per sè), cambia solo parrocchia.

Pietroburgo è un libro unico.
Non fraintendetemi, lo dico in senso tecnico, senza alcuno slancio appassionato, unico per scelta artistica. E anche su questa tensione all’unicità ci sarebbe da parlarne, perché è senz’altro una caratteristica molto russa e molto novecentesca, infatti i russi del Novecento, come fu Belyj che scrisse Pietroburgo negli anni ’10, e poi Pil’niak, poi Sklovskij, poi Charms, poi Erofeev, poi Mandel’stam, Gor’kiy e tanti altri; tutti in un modo o nell’altro navigatori di avanguardie artistiche che si avvicendavano brancolanti nel caos russo sia pre- che post-rivoluzionario, quel caos generatore di mondi e di mostri che fu la fine dell’Ottocento e il primo Novecento europeo; in quel caos di popoli e stati e utopie e ideologie e visioni e miraggi e allucinazioni e sogni, gli scrittori russi, sotto etichette diverse – Belyj viene ricordato come simbolista –  di solito miserabili o alcolizzati o drogati, tendenzialmente non delle persone che direste ammodo, inaugurano un’utopia letteraria che ancora deve ricevere l’ammirazione e la gloria che merita: l’utopia dell’opera unica.

Scrivono con l’unicità di stile e senso come stella polare; per questo scrivono selvaggiamente, assurde piroette lessicali e montagne russe stilistiche, sventrano le forme e i ritmi, scrivono sotto gli effetti delle peggiori sostanze tossiche, scrivono camuffandosi, scrivono come se fossero topi che strisciano nelle cantine moscovite o pietroburghesi, scrivono con il respiro dell’infinita steppa russa, scrivono per non avere eguali, mettendosi in gioco in tutto e per tutto. Per questo sono grandissimi e tuttora incompresi: sono loro i veri rivoluzionari: gli anarchici, disfattisti, complottardi e antiborghesi; leggi questi russi e gli altri, immediatamente, i prodotti dell’industria culturale, quelli della catena di montaggio della macchina editoriale, scompaiono.

Come Belyj di Pietroburgo, io penso ci sia solo Céline, il grande Unico della letteratura del fronte occidentale; sì, penso che Belyj sia quanto di più accostabile a Céline e Pietroburgo uno dei pochi libri che si potrebbero definire celiniani senza vergognarsi dell’accostamento. O forse, visti gli anni, è Céline a essere simile a Belyj e i suoi libri a essere belyjani. Ma non importa, qui il punto non è la storia ma la musica dello stile e credo che se accosto Belyj a Céline sia chiaro cosa intendo, nel bene e nel male: siete avvertiti, non sarà una scampagnata ma una marcia grottesca e irreale di dolore e urla e infamia e notte e malattia.

Sul ponte di ghisa si voltò; e non vide nulla: sopra l’umido parapetto, sopra l’acqua verdognola brulicante di bacilli volarono nelle folate di vento della Neva solo un bastone, un paltò, una bombetta, due orecchie, un naso e dei baffi.

Belyj usa macchie di colore; come fosse una scena teatrale gioca con le luci: la nebbia è talvolta verdognola talaltra giallo-verde; la casa è gialla, il coperchio del pianoforte riluce di riflessi giallastri, di oro fiammante sono i riverberi dei vetri all’alba, all’interno degli edifici incombe una torbidezza di zafferano, gialle sono le labbra macchiate dalla nicotina, giallo-rosse sono le distese di parole, gialli sono i Mongoli e gialle sono le orde di Asiatici, gialla è Pietroburgo, il colore della malattia, dello zolfo e dei capelli di fata: la scena è inequivocabilmente invasa da fasci di luce giallastra che rompono l’oscurità della notte e della nebbia: Pietroburgo tutta è una scena teatrale lampeggiante di fiamme di zolfo e circondata dal buio, dalle paludi e dalla notte baltica.

Belyj usa i suoni per riempire la scena; suoni che provengono sempre da dietro le quinte, dal buio o dalla notte: latrano cani idrofobi, tossiscono i personaggi kche-kche-kche-kche, vibrano rumoreggiando i ponti sulla Neva, bisbigli agli orecchi sciu-sciu-sciu, squittiscono i topi, sibila la sirena della fabbrica e, più di ogni altro rumore, ulula lo spazio:

Tali erano quei giorni. Ti sei avventurato di notte negli spazi deserti dei sobborghi, per udire una «u» persistente e molesta? Uuuu-uuuu-uuuu: così risonava lo spazio; ed era poi un suono? Il suono di qualche altro mondo; eppure raggiungeva una rara forza e chiarezza; uuuu-uuuu-uuuu: echeggiava sordamente nelle campagne dei sobborghi di Mosca, Pietroburgo, Saratov: ma non era la sirena delle fabbriche a sibilare, non c’era vento; e tacevano i cani.

Belyj usa il punto e virgola come Celine userà i suoi leggendari tre puntini: come un grugnito o una smorfia di scherno mista a disgusto, il segno della presa in giro: voi, lettori o spettatori, umili creature spaurite davanti a mostruosità del genere o presuntuosi e tronfi nelle vostre autocoscienze, non contate nulla, siete onischi striscianti sulle pareti.

Prima di leggere Pietroburgo dovete sapere due cose: cosa sono gli onischi e cos’è un domino rosso.
Poi inspirate profondamente e lanciatevi nel gorgo di Belyj e nella prosa funambolica della traduzione di Ripellino.
Libro memorabile.

La provocazione gavazzava sul Nevskij. La provocazione mutava il senso delle parole.
Aggiungeva da parte sua una qualsiasi preposizione: con l’aggiunta di lettere  e sillabe mutavano un innocente brandello verbale in un brandello dal contenuto terribile; e, ciò che più conta, anche lo sconosciuto deformava le parole.
La provocazione, dunque, si annidava in lui stesso.
O gente russa!
Voi state diventando ombre di turbinose nebbie: le nebbie volano da tempo immemorabile dai plumbei spazi del Baltico ribollente; contro le nebbie sono stati puntati i cannoni.
Alle dodici il rombo d’un cannone solennemente assordò Pietroburgo, sontuosa capitale dell’Impero: furono lacerate le nebbie, e le ombre si dissiparono.
Solo un’ombra – quella del giovane sconosciuto – non si scosse né si disgregò per lo sparo, compiendo senza ostacoli la sua corsa fino alla Neva.
D’un tratto egli vide due studentesse vestite poveramente che fissavano gli occhi su di lui…

11 commenti su “Pietroburgo – Andrej Belyj

  1. Maurizio Mancini
    17 novembre 2015

    Dopo alcuni giorni passai a trovare Belyj ( viveva sull’isola Vas lil’evskij, quasi accanto al ponte Nikolaevskyj) e vidi una cappelliera rotonda.
    Dentro c’erano un domino di raso rosso e una maschera nera.
    Buongiorno 2000 se hai amato Pietroburgo leggi queste memorie che sono scritte da chi conosceva bene questi simbolisti .
    Necropoli di Vladislav F. Chodasevic .
    E speriamo che venga l’inverno….

    • 2000battute
      17 novembre 2015

      Segno e vedo di procurarmelo molto presto. Intanto ho recuperato un vecchio libro di Belyj, Kotik Letaev in una vecchia edizione del 1973 di Franco Maria Ricci

    • Maurizio Mancini
      17 novembre 2015

      fra i miei libri ho ritrovato Il colombo d’argento , molto interessante…

  2. Beppuccio
    15 febbraio 2015

    Amatissimo da Nabokov, lo metteva tra i 5 scrittori migliori del ‘900. Finalmente esce in edizione adelphi, lo cercavo da tempo. Sempre una bella recensione, impeccabile. E ti riconsiglio “Fuoco pallido”, a proposito di scrittori russi.

    • 2000battute
      15 febbraio 2015

      l’ho comprato Fuoco pallido

    • Beppuccio
      16 febbraio 2015

      Scusa la mia insistenza, ma sono curioso di sapere cosa ne scriverai (dovesse anche essere una stroncatura)

  3. GB CRIPPA
    10 febbraio 2015

    Grande Belyi e Grande Ripellinio… Del resto come Dice uno dei Personaggi di Grossman (Vasily) La gente Leggeva Dostoevsky o Tolstoty per imparare a pensare e a giudicare i fatti del mondo… mica per scoprire l’assassino di una vecchia usuraia o i tradimenti di una nobildonna……

  4. karenina
    2 febbraio 2015

    Lo lessi anni fa nell’ormai introvabile edizione Einaudi, ho un ricordo ancora abbastanza vivido ché non è il genere di libro che si dimentica; trovo un po’ azzardato l’accostamento a Celine, anche se credo di capire cosa intendi, lutulenti entrambi, però Bely lo ricordo molto meno doloroso, certamente grottesco ma non con il carico di miserie di Celine. Mi riprometto di rileggerlo, poi magari ripasso. Sottoscrivo il consiglio per Il demone meschino, altro libro di difficile reperibilità però.

    • 2000battute
      2 febbraio 2015

      Hai ragione, il parallelo con Céline va interpretato; non c’è il carico di miserie e dolore personale di Céline, però, per quanto unici entrambi, trovo che siano accostabili per la ferocia che hanno nei confronti dello stile narrativo e delle parole. C’è un grottesco che va oltre alla storia e ai personaggi e che mi sembra includere l’atto stesso dello scrivere.
      Mi segno Il demone meschino, grazie

  5. Maurizio Mancini
    31 gennaio 2015

    grandissimi scrittori russi , i migliori di sempre.
    dannazione e santità , anime immense come il loro territorio.
    2000 sei un mito! adesso aspetto il tuo commento per Il demone meschino di Sologub: so che lo leggerai…se non l’hai già fatto.
    un abbraccio grande da Firenze.

    • 2000battute
      1 febbraio 2015

      Sologub? Non lo conoscevo. Segno e compro appena riesco. Grazie Maurizio

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Questa voce è stata pubblicata il 31 gennaio 2015 da in Adelphi, Autori, Belyj, Andrej, Editori con tag , , , , , .

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