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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

La tregua – Mario Benedetti

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LA TREGUA
Mario Benedetti
Traduzione di Francesco Saba Sardi
Feltrinelli 1983

Che gusto di gelato preferite? Immaginiamo di fare una prova: ci troviamo in dieci o venti in una gelateria e ognuno prende un gelato con un unico gusto, quello che più gli piace in assoluto; lo pensa, lo dice e quel gusto c’è; in quanti prenderemmo lo stesso gusto? Non in molti io penso, di sicuro ci sarebbe il clan dei drogati di cioccolato, e gli altri? I non drogati, che farebbero, la coalizione del pistacchio? Ma figuriamoci, se non si droga, l’uomo non si coalizza neanche morto, quindi gli altri si sparpaglierebbero in un tutti-contro-tutti-contro-i-cioccolatai. Io ad esempio prenderei il gusto Zuppa Inglese della baracchina del Meloncello di Bologna, per dire, che voi, cioccolatisti o no, manco sapete cosa sia. Ad esempio.

Potremmo andare avanti all’infinito: con i film, i libri, i colori, le scarpe, le qualità di uva, la grappa, perfino con le piadine: preferite quella del lungomare di Cesenatico o quella di Sant’Arcangelo di Romagna? Sono tutte diverse. E sulle donne? O sugli uomini? All’infinito, andiamo avanti.

Questo sproloquio per dire una cosa molto semplice ma in fin dei conti inspiegabile: La tregua è il terzo libro di Mario Benedetti che leggo e mi pare di essere giunto a un punto semi-fermo: a me la scrittura di Mario Benedetti, in generale, non piace.
la tregua- novecentoSento persone di sicura affidabilità di giudizio e gusto letterario ben rodato che lo apprezzano, alcune lo apprezzano moltissimo, perfino lo esaltano. Questo La tregua, da qualche mese ripubblicato da Nottetempo nella stessa traduzione di Francesco Saba Sardi, mi auguro rivista perché di refusi ce ne sono tanti nell’edizione di Feltrinelli (e con un’assurda immagine di copertina di un, credo, cocktail Martini, che ho ritrovato praticamente uguale in una vecchia guida di Budapest del 2007 nella sezione “Ristoranti”), è stato lodato, io credo con sincerità, e lo capisco, avendolo letto comprendo il motivo delle lodi. Lo comprendo come posso comprendere che qualcuno riesca a trovare gustoso mangiare spiedini di scarafaggi o che ci sia chi gode nel farsi frustare da una signora mentre giace prostrato vestito da lattante o altre bizzarrie del genere; razionalmente le comprendo se metaforicamente disseziono quello che so dell’animo umano e ne estraggo polposi filetti corrispondenti a pulsioni incontenibili. È dunque, dal mio punto di vista, una pulsione incontenibile quella che porta ad apprezzare, perfino moltissimo, La tregua di Mario Benedetti: razionalmente ne comprendo l’esistenza, ma non potrò mai capire cosa si prova.

È la vecchia storia dell’io sono io e tu sei tu: io sto a prendere del fresco seduto dietro i miei occhi, tu prendi del fresco seduto dietro i tuoi e io e te mai ci scambiamo di posto, gli unici che dicono con convinzione di riuscire a farlo sono certi innamorati, ma si sa che poi vanno a sbattere di crapa; o anche, poi la smetto che mi sembra chiaro il concetto, ma questa la voglio dire che mi fa ridere, dicevo anche come Corrado Guzzanti e l’abboriggeno… a’abboriggeno, ma io e te… che c’avemo da dì?
Per me quelli che si sono esaltati per La tregua sono i miei abboriggeni.

De La tregua gli italiani commentano con disinvoltura che richiama Svevo e le atmosfere zeniane per lo stile diaristico e quella certa cadenza da maestro che parla senza intonazione, ripetendo fatti e azioni con il distacco di chi ha già ripetuto la stessa lezione infinite volte e ormai ha dimenticato i giorni lontani della passione oratoria. La storia de La tregua è il riflesso di una tragedia, razionalmente o in teoria, che poi è la stessa cosa visto che la ragione costruisce sempre teorie, qualche volta, ma non molto spesso, parzialmente coincidenti con la pratica. Nella pratica dipende da me, da te, da lei, da lui, da quell’altro là dietro e così via. Visto che l’unica condizione che mi è nota e quella che dipende da me, vi posso testimoniare che in pratica la teorica tragicità della storia scolora come una bella camicia garibaldina lavata a 90 gradi.

È un racconto afono e atono perché tale è il protagonista sul quale la tragedia della storia si riflette, il che potrebbe produrre un fascino notevole per il contrasto se messo a contatto con gli elementi tragici e strazianti; ma anche questo teorico contrasto si sgretola nella sequenza narrativa che segue le orme dell’uomo alle soglie dell’età della rassegnazione (prossimo ai cinquant’anni e alla pensione), con i suoi rimpianti, lutti e memorie (l’uomo è vedovo), incomprensioni con i figli, estraneità, figli che crescono e lui non ne sa nulla, lavoro culminato in una discreta carriera d’ufficio che si svela per quel che è: niente di cui emozionarsi, comunque un lavoro grigio e così via fino a quando accade l’impensabile: s’innamora della nuova impiegata, giovane e graziosa, e viene ricambiato. Segue relazione titubante per la differenza d’età, figli di lui, famiglia di lei, viviamo alla giornata o facciamo progetti? si scopa alla grande con la ventenne, e di nuovo e così via. Poi lei muore e lui va in pensione.

Fine della storia. Grande tragedia; Grande metafora; Grande pensiero; Grande rimpianto; Grande morale; Grande vita grama. Riflesso sull’uomo ingrigito e deluso. Risultato: un mormorio sommesso che puzza di fumo.

Tutto ben scritto (Benedetti sapeva scrivere benissimo) ma anche tutto piuttosto noioso, molto prevedibile, parecchio moralista (Mario Benedetti è un moralista), molto populista, molto borghese e molto artificiosamente desiderabile. Poche cose sono adorabili quanto assistere alle tragedie degli altri, tanto più se sono finte, così non c’è neppure lo scrupolo del voyeur pentito (oggi quest’ultima cosa forse non è più molto vera; lo scrupolo del voyeur pentito non lo sente più nessuno e quindi molto meglio vedere le tragedie vere delle tragedie inventate).

Di nuovo, capisco il tocco delicato di Benedetti quando indaga le titubanze e l’incredulità dell’uomo maturo e rassegnato, la sua irreale gioia e il suo dolore sordo, misurato, educato e represso; capisco il piano interpretativo superiore, quello delle illusioni di una società che per un caso può credersi ringiovanita e dimentica delle sue decrepitezze, ma che inevitabilmente cadrà rovinosamente; capisco il gioco del fato che dà e toglie, il pendolo del destino tra gioia breve e dolore eterno, generosità illusoria e crudeltà definitiva, sembra un bignamino di morale cattolica; insomma, capisco che ci si può fare abbagliare da molti riflessi a seconda dell’angolo che si prende, ma di nuovo, come prima per l’abboriggeno: capisco che qualcuno possa vederli questi riflessi ma io non li vedo, per me la superficie de La tregua è opaca, inesorabilmente opaca, e grigiastra.

«Non mi importa se dopo arrivano il disincanto e la morte, pretendo solo una consolazione temporanea, una consolazione della pelle. Perché la pelle sarà così importante?»

Frase senza dubbio stupenda. Di piū: frase che mi colpisce perché in equilibrio precario e temporaneo tra  la calda sensualità del contatto con una pelle e il gelo del disincanto e della morte, è una di quelle frasi che potete scolpire, copiare, imparare a memoria per ripeterla a non finire eppure ogni volta sembrano sul bordo di un tavolo pronte a cadere e a rompersi. Questa è una frase che spiega molto della vicenda de La tregua. La tregua stessa del titolo è infatti una consolazione temporanea tra due disincanti, quello venuto crescendo con la vita e quello che si assesterà in attesa della morte. È una frase stupenda. Ma non è una frase che trovate ne La tregua, bensì in Grazie per il fuoco, libro con un apertura e un epilogo meravigliosi. Non è un caso. E non è indipendente dal mio poco apprezzamento de La tregua.

Ma alla fine dei conti, la mia vera impressione è che La tregua sia il tipico libro che quelli del plotone del gusto cioccolato apprezzano, sì credo si possa dire che sia un libro gusto cioccolata, è proprio un libro adatto al bel plotone cioccolatoso, altroché, ogni sfumatura di gusto cioccolato ha il suo bel quadretto che sorride da uno scaffale o una vetrina o dentro un incarto ben stirato; ma gli altri? quelli del gusto pistacchio, limone, riso soffiato, cassata siciliana, finocchio cotto, salame felino o anche il mio adorato gusto zuppa inglese della baracchina del Meloncello? Che c’entriamo noi con quella gente che cola rivoli marroni dalla bocca e vaneggia di presunte estasi papillogustative quando è invece solo preda di sostanze psicotrope vendute al supermercato?
Mi sa poco, io Mr. Zuppa Inglese direi niente.

4 commenti su “La tregua – Mario Benedetti

  1. Maurizio Mancini
    27 settembre 2015

    oltre alla forma sto attento anche al contenuto e passo dalla prosa superstringata tutta trattini della Cvetaeva fino ai periodi lunghissimi e leggerissimi di Gottfried Keller.
    è sempre più difficile trovare un romanzo che mi faccia sobbalzare fra i contemporanei.

    • 2000battute
      28 settembre 2015

      tra i contemporanei fatico anche io. la cosa migliore che ho letto quest’anno direi che sono i due libri di Annie Ernaux pubblicati da L’Orma

    • Maurizio Mancini
      29 settembre 2015

      metto madame Ernaux in lista…..ho sei romanzi sul comodino che mi aspettano…

  2. Maurizio Mancini
    27 settembre 2015

    beh, abbiamo qualcosa in comune.
    nemmeno a me La tregua è piaciuto e il mio libraio è rimasto interdetto.
    non era la chicca che mi aspettavo
    buona serata

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Questa voce è stata pubblicata il 7 febbraio 2015 da in Autori, Benedetti, Mario, Editori, Feltrinelli con tag , , , , , .

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