2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

L’esercito di cenere – José Pablo Feinmann

esercito cenere sur

L’ESERCITO DI CENERE
José Pablo Feinmann
Traduzione di Francesca Lazzarato
SUR 2014

Registro felice una nuova scoperta: José Pablo Feinmann. Avevo letto Amaro, non troppo e mi era molto piaciuto, ho riprovato con questo L’esercito di cenere e ancora mi è piaciuto molto. Un bellissimo libro può essere il frutto del momento di ispirazione irripetibile, due bellissimi libri sono la conferma della grandezza di uno scrittore.

L’esercito di cenere (El ejército de ceniza, 1986) è libro completamente diverso dal precedente Amaro, non troppo (Ni el tiro del final, 1981) salvo per un certo gusto di Feinmann nel raccontare storie piccole, storie periferiche, come rottami orbitanti attorno al grande pianeta del mondo, storie che non dovrebbero interessare nessuno, ma che costituiscono una delle grandi miniere di ispirazione per la letteratura. Quindi storie piccole e marginali. In entrambi i libri. E poi anche un certo tono sommesso ma ironico, un borbottare tra l’annoiato e il divertito o forse divertito perché annoiato. Molto argentino. Ma non cinico, anzi, quasi ingenuo, come il carattere dei suoi personaggi, che potrebbero essere cinici e ci si aspetterebbe che tali fossero e talvolta ci provano a esserlo, ma non ci riescono. Sono dei falliti e il loro più grande fallimento è il non riuscire a essere cinici.

esercito cenere giuntiL’esercito di cenere è il racconto di un deserto imponderabile e del sud dell’immaginazione; un racconto dello spazio senza confini e senza orizzonte, incorporeo e destabilizzante.
Questo libro è stato definito in vari modi. Gli italiani, alcuni italiani s’intende, l’hanno paragonato, hanno perfino detto che “è spontaneo paragonarlo”, a Il deserto dei Tartari, cercando nel tenente Quesada l’omologo del sottotenente Drogo e nel Forte Indipendenza l’immagine riflessa della Fortezza Bastiani. Anche nel commento dell’edizione Giunti che ho letto (del 1986 con traduzione di Giovanni Lorenzi) si accenna a “un Deserto dei Tartari”. Non mi sembra un buon paragone. Come lo stesso Feinmann conferma nell’intervista contenuta nella postfazione (presente solo nell’edizione Giunti, la nuova edizione SUR contiene invece una nota inedita dell’autore), L’esercito di cenere non ha nulla a che fare con Il deserto dei Tartari. Nel capolavoro di Buzzati l’entità organica onnipresente è l’attesa indefinita; l’anima de L’esercito di cenere invece è la marcia forzata, l’inoltrarsi della guarnigione in quel deserto che si fa sempre più irreale, metafisico – anche “un western metafisico” è stato definito, dove non si capisce bene che c’entri la qualifica di western -; non è la pampa argentina il deserto descritto, non le assomiglia per nulla, eppure dovrebbe esserlo per la direzione che prendono i soldati; invece non è nessun deserto reale, è un deserto irreale, concettuale, nel quale lo spazio-tempo si confonde con le allucinazioni del colonnello Andrade. È una visione allucinatoria quella descritta da Feinmann e contemporaneamente una marcia forzata disumana, durante la quale i soldati che cadono stremati da cavallo vengono trucidati per tradimento. È una marcia forzata in un deserto dell’immaginazione, in realtà, quella a cui ci costringe Feinmann, all’inseguimento di un ipotetico nemico informe del quale si crede di seguire le tracce nella sabbia, fino allo sfinimento, alla morte inevitabile per sfinimento fisico e svuotamento mentale.

Nell’intervista Feinmann paragona il colonnello Andrade ad Achab e di conseguenza il tenente Quesada a Ishmael, il deserto irreale è l’oceano irreale del Pequod, e il nemico informe, simbolo del male, è idealmente la demonica balena bianca; lo stesso simbolo del male lo sarebbe la misteriosa armata ribelle di Angel Medina che, nella follia del colonnello Andrade, da caporale diviene via via tenente, fino a colonnello egli stesso, perfetta nemesi quindi del condottiero pazzo e sanguinario. Eppure nemmeno questo paragone è convincente.
Altri vi hanno rivisto i bagliori cupi della giungla conradiana durante la marcia verso il cuore di tenebra, ma anche questo accostamento non mi sembra convincente.

Manca il deserto. Il deserto è fondamentale. Il deserto non è l’oceano e non è la giungla; è un luogo a sé, non basta la vaghezza dei confini e la progressiva perdita di senso e di coscienza.
Bisogna cercare tra i deserti letterari, tra i luoghi dove si muore di stenti per la fatica e il calore, i luoghi nel quali aleggia una polvere incessante e dove talvolta la natura più arcigna o spiriti malvagi scatenano una tempesta che mozza la vista e il respiro; è nei deserti dove si alzano miraggi all’orizzonte e in lontananza sembra di intravedere i bagliori di una guarnigione fantasma, il nemico che si palesa, la fine dell’inseguimento, la battaglia che finalmente può avere luogo, quando ormai ogni velleità di giustizia e di onore sono svanite e solo una fine, una qualunque fine, è lo scopo della vita. Quello è il luogo di Feinmann e del suo L’esercito di cenere: il deserto in fondo al quale si trova la morte inutile e inevitabile. Come la vita.

Per questo io penso a Coetzee e al suo Aspettando i barbari, altro deserto metafisico, il bush sudafricano, e i barbari, armata invisibile, popolo immaginario, nemico d’ombra da raggiungere in un’altra traversata disperata. Oppure, e qui in pochi mi seguiranno, pazienza, vado da solo, un’altro deserto, più recente, attuale, quello del Neghev di Convoglio di mezzanotte di S. Yizhar, ancora una marcia, questa volta notturna, nemici invisibili in agguato sopra ogni altura, i fari dei camion che illuminano sassi e sterpaglia, un bivacco di soldati immersi nel pulviscolo dorato della sabbia del deserto, l’atmosfera satura di polvere in sospensione che ingloba tutto, anche i pensieri e le speranze degli uomini.
Deserti. Bisogna cercare i deserti dei grandi narratori. José Pablo Feinmann è uno di loro.

Finisco con un brano, stupendo, quello che segna definitivamente la cesura tra reale e irreale, ragione e follia, ricerca di senso e insensatezza: la pioggia di cenere dopo la tempesta.

Erano ora un esercito grigio. Un esercito di uomini grigi, con uniformi grige, che avanzano su cavalli grigi, in una pianura grigia. Nessuno provò a spiegare il fenomeno. La pioggia li accompagnò ancora per un lungo e allucinato tratto, finché cominciò a cadere lenta e finalmente cessò.
Ora procedevano a tentoni. La cenere – Baigorria lo aveva spiegato al colonnello – aveva cancellato la pista. Era semplice: non c’era una pista da seguire. Il colonnello lo fulminò col suo sguardo ostinato e disse: «Una pista c’è sempre. Quando ho scelto lei, l’ho fatto perché lei si era impegnato a decifrare sulla sabbia perfino le tracce cancellate dai venti». «Questa è un’altra cosa, colonnello» si difese Baigorria. «Di una pista che il vento cancella rimane sempre qualcosa. Ma questa è cenere. Ha ricoperto tutto.» Il colonnello, senza smettere di guardarlo nel fondo degli occhi, disse: «Dove andiamo, Baigorria? Avanti, me lo dica». Baigorria, come per trattenere una furia, si morse le labbra. Poi disse: «Verso sud, colonnello. Sempre verso sud».
(ed. Giunti, 1986, trad. di Giovanni Lorenzi)

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Questa voce è stata pubblicata il 14 febbraio 2015 da in Autori, Editori, Feinmann, José Pablo, SUR con tag , , , , .

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