«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
L’OMBRA DI HEIDEGGER
José Pablo Feinmann
Traduzione di Lucio Sessa
2007 Neri Pozza
Dicevo un paio di settimane fa, a proposito de L’esercito di cenere, che mi aveva sorpreso il cambio così netto di stile e storia rispetto al precedente Amaro, non troppo: uno la storia di un triangolo lui-lei-lui di periferia, da balera diremmo, ambiguo, sensuale; l’altro il deserto metafisico, la marcia verso un sud perso nelle allucinazioni di un colonnello folle; dicevo, uno e l’altro molto belli, libri da grande scrittore, una scoperta, avevo detto. Ora arriva questo L’ombra di Heidegger e la sorpresa cresce di un ordine di grandezza, José Pablo Feinmann, nel mio archivio di memorie e suoni, si accosta adesso al grande Juan José Saer, di una decina d’anni più anziano di Feinmann e campione nel cambiare continuamente strada, svoltare a ogni angolo, ogni libro puntare verso un orizzonte diverso.
Feinmann in questi tre libri che ho letto finora (e preannuncio che il tunnel è imboccato quindi leggerò a nastro tutto quanto troverò di lui) mantiene il filo comune delle piccole storie intime, calate però in scenari, scritture, immagini e suoni completamente diversi le une dalle altre.
L’ombra di Heidegger è un testo austero, in un certo modo, tanto quanto Amaro, non troppo era frivolo e L’esercito di cenere era metafisico; queste sono tutte connotazioni che Feinmann applica alle storie per dare forma alla cornice, impostare le tinte del racconto, il suo linguaggio e il ritmo. È anche un testo drammatico del quale la cornice è la voragine nella Storia che il nazismo ha aperto nel cuore dell’Occidente, l’allucinazione che ha portato a credere di inserire un cuneo ideologico tra bolscevismo sovietico e mercantilismo americano per rivendicare in nome dell’Europa e della Germania sua guida e luce ispiratrice i principi della cultura romantica occidentale.
Feinmann, che è stato per molti anni professore di filosofia a Buenos Aires, scrive, nel 2005, una resa dei conti lucida, implacabile e dolorosa con la colpa che ha macchiato, e per sempre, il pensiero occidentale, la filosofia figlia della tradizione greca, la classe intellettuale d’Europa quando non solo si è resa complice della follia nazista, ma ne ha offerto le basi intellettuali, teoriche, metafisiche. Ma non basta. Feinmann non solo ritorna su questa ferita storica tanto nota a chiunque quanto comodamente ignorata. O sulla disposizione connaturata nelle classi intellettuali a mettersi a servizio della politica dominante, qualunque essa sia, diventandone strumento; altra ben nota verità storica che non in molti amano discutere. Non solo di questo parla.
Pone la domanda alla quale non si può dare risposta razionale, la domanda che sta alla base del romanticismo naturale, o dell’irrazionale dell’uomo e della sua cultura. Si chiede, lo fa domandare alla sua storia, naturalmente, ma è molto esplicito, si chiede se esista una spiegazione che non sia inesorabilmente insufficiente, si chiede com’è possibile che l’uomo che ha raggiunto le vette filosofiche del Novecento sia anche colui che ha posto le basi teoriche del nazismo, al di là delle grossolanità di un Main Kampf o di mezze tacche come Rosemberg, il filosofo di regime; si chiede come sia possibile che Heidegger, il Maestro della filosofia novecentesca, colui che giudica il più grande pensatore dopo l’epoca di Kant, dopo Hegel, quello che meglio di ogni altro ha saputo ritrovare le radici greche nella cultura europea, come è possibile che l’uomo con la più grande capacità di pensiero filosofico sia stato non solo un iscritto e un sostenitore, ma la guida intellettuale delle SA e del nazismo tutto? E badate che la domanda va oltre all’uomo Heidegger con le sue naturali debolezze o manie. Non è una domanda psicologica, è una domanda filosofica. La psicologia non serve a nulla, ricorrere a quella è il sacco che si mettono in testa gli ignavi per non vedere. La purezza assoluta del pensiero può coniugarsi con il male assoluto della politica; la filosofia, l’amore per la sapienza, non impedisce, anzi può giustificare, l’oppressione più violenta e la barbarie. Questa è la questione che Feinmann ripropone, e ha coraggio a farlo, perché va riproposta, sempre, fatta riemergere, e non per cercare una soluzione o una risposta, quelle le cercano quelli che in ogni caso sanno come far quadrare i conti; la questione va riproposta per contrastare l’oblio, ricordare la vergogna per la nostra natura, che non scomparirà mai. I nazisti, il male assoluto, l’amore per la sapienza che partorisce la barbarie, i fürher e la tenaglia della massificazione e del mercantilismo che schiaccia la natura romantica dell’uomo sapiente esisteranno sempre, qualunque cosa facciate o diciate. Con questo Feinmann fa i conti. Forse, ma non lo dice, o forse sì ma in modo velato quando parla di Sartre, fa anche i conti con Céline: come può il più grande artista dello scrivere essere un nazista antisemita impenitente? L’amore per il raccontare svolge il racconto del mondo in una barbarie compiacente, come è possibile? Lo è, possibile, e sempre lo sarà, qualunque cosa facciate o diciate. E così via.
È curioso, per usare un modo di dire comodo, come sembra di poter scorgere piste da seguire in un deserto metafisico che somiglia a quello di Feinmann e invece è la Storia, la nostra Storia; piste forse irreali, forse è solo un dirigersi sempre verso sud, colonnello, verso un esercito nemico irraggiungibile ma che sembra essere costantemente in agguato sulle alture circostanti. Per questo viene facile pensare a Winfried Sebald, il grande Sebald, colui che ha svelato alla coscienza messa a riposo dei tedeschi l’ipocrisia del processo di rimozione collettiva, ha riportato in luce i traumi nascosti della sconfitta e della distruzione. Sebald è stato una delle grandi coscienze d’Europa, nessuno lo mette in dubbio. Sebald considerava Borges un maestro, ne è stato influenzato. È storia nota. Lontane radici argentine. Feinmann viene spesso citato come autore borgesiano, certamente influenzato dal maestro di Buenos Aires; e tutto ciò, stando alla larga da facili e pure ottuse concatenazioni causali, induce, a me induce, a credere che la ragnatela di fili sottilissimi, quasi impalpabili eppure robusti, che intreccia culture, persone, epoche e storie sia molto più fitta di quello che la Storia riesce a restituire con le sue necessarie semplificazioni, didascalie e catalogazioni. Feinmann e Sebald hanno in comune un sentimento di profondo disagio nei confronti della debole memoria d’Europa, sono argentini, tedeschi o europei, ma hanno anche in comune un immaginario fantasioso nel quale i confini e le categorie si sfumano, dove non si è né tedeschi né argentini, né al centro né ai confini del mondo perché non si sa quale sia il centro e quali siano i confini, nessuna collocazione o identità è definita con precisione sufficiente da poter fare un atto di fede, poter credere a ciò che si è. Ne L’ombra di Heidegger la norma è l’indefinitezza e questa si definisce con i contorni di ciò che non è, mai di ciò che è. Ecco quindi perché non c’è una risposta alla domanda filosofica, non c’è spiegazione che non sia un’assenza di spiegazione al rapporto tra la filosofia di Heidegger e il nazismo, e così via.
Quello che rimane sono domande senza risposta, la definizione dell’indefinito attraverso ciò che non è, come la domanda finale, quella che il figlio del discepolo, Martin Müller figlio di Dieter Müller, rivolge al Maestro Martin Heidegger anziano, ritirato e silente:
Che cosa pensa, lei, di fare?
Non potrei dire che ci fosse una sola espressione sul volto di Heidegger. Neanche una smorfia. Forse, in modo appena percettibile, una dis-tensione, una qualche forma di sollievo. Sapeva, come sapevo io, che era tutto finito. Ha spostato indietro la sedia, trascinandola rumorosamente, poi si è alzato. Non mi ha guardato. Il Dio della filosofia non si è degnato di posare lo sguardo su di me. Ha sospirato, credo. Ma in modo impercettibile. Con fastidio, forse stanchezza. Si è girato. Mi ha dato le spalle. E ha camminato, con passo pesante, fino alla porta.
La voce narrante del libro è Dieter Müller, un professore di filosofia all’Università di Friburgo dove anche Heidegger insegna, discepolo, esegeta e adepto del Maestro indiscusso, forse il suo discepolo più fedele. Dieter Müller diventa nazista perché Heidegger è nazista, ascolta il discorso del rettorato pronunciato da Heidegger a una platea di camice brune e saluti nazisti e ne viene così emotivamente travolto che il giorno dopo si iscrive al partito nazista. Ma Dieter Müller non è un fanatico delle SA, in quel periodo in lotta con esercito e SS per il potere, è un semplice studioso, un filosofo minore, sempre all’ombra del grande Heidegger, un uomo comune, un borghese, un padre di famiglia diventato nazista senza esserlo, non è mai nemmeno stato un bolscevico, non è filoamericano, è un tedesco degli anni ’30, antisemita quanto lo si era comunemente nella Germania degli anni ’30.
Il libro ha la forma di una lettera-confessione che Dieter Müller scrive al figlio Martin quando già aveva abbandonato la Germania per fuggire in Argentina, dopo la strage delle SA ad opera della Gestapo e delle SS e all’alba della soluzione finale contro gli ebrei.
Scrivo questa lettera con una Luger sul mio tavolo da lavoro. È qui, alla mano; è, per il momento, solo un utilizzabile in attesa di un progetto che lo incorpori. Che gli dia un senso, una decisione che gli dia lo spessore e la consistenza della storicità.
[…] E ora essa, la Luger, è qui, dove ti ho detto, sul mio tavolo da lavoro, “alla mano”. Che ancora una volta faccia parte della storia, che ancora una volta le accada storia, che ancora una volta entri nella trama complessa di un accadimento, non dipende da essa ma da me, dall’uso che deciderò di farne.
Per il momento, continuo a scrivere.
E Dieter Müller continua a scrivere, scrive tutto, ricostruisce tutta la sua parabola che non è altro che un riflesso minore di quella di Heidegger e quindi scrive di Heidegger; Heidegger è il fulcro di tutto ma sembra inumano, una pura macchina filosofica da testi eterni come Essere e tempo che generazioni di discepoli cercheranno di interpretare e decodificare. Per questo il titolo può essere letto in diversi modi: L’ombra di Heidegger ovvero Dieter Müller che narra una storia, oppure Heidegger che proietta la propria ombra sull’orrore d’Europa oppure, e questa è la versione che io preferisco, Heidegger stesso non è che un’ombra, indefinito, come infatti appare in tutta la narrazione, irrigidito da articolazioni meccaniche, una sagoma controluce alla quale non è possibile avvicinarsi e della quale non si percepisce la consistenza oltre al suo pensiero anch’esso irraggiungibile. Solo Hannah Arendt sembra essere stata in grado di comprenderne la vera natura e l’ha amato. Ma anche questo è un altro mistero senza risposta.
Infine la lunga lettera termina con la richiesta di perdono del padre al figlio, per tutto.
Ma non termina il libro. Feinmann sterza improvvisamente, cogliendo ancora una volta di sorpresa. C’è una seconda parte: breve, scritta in modo serrato, drammaticamente gelida, entra in gioco la modernità, ora è il figlio a essere il protagonista, diventato anch’egli professore di filosofia, ritorna alla confessione del padre, alla Luger, ancora una volta poggiata sul tavolo, immaginando che ancora una volta faccia parte della storia, questa volta è il tavolo della casa sperduta nei boschi dove vive Heidegger anziano e isolato, la Luger è di nuovo un utilizzabile in attesa di un progetto che lo incorpori e il progetto di Martin Müller è di porre una domanda a Heidegger, non la domanda filosofica e neppure la domanda psicologica, ma la domanda con la quale ogni uomo, qualunque vita abbia vissuto, prima o poi deve fare i conti: Che cosa pensa, lei, di fare?
Un grande libro. Uno scrittore meraviglioso.
Mi fido molto dei consigli di lettura di chi ama Bernhard. I tuoi sono sempre preziosi.
Per Feinmann metto la mano sul fuoco, è un grande scrittore, difficile da catalogare perché sembra cambiare genere a ogni libro, anche se sembra sempre scegliere piccole storie per disegnare quelle grandi sullo sfondo; è molto europeo ma anche molto distante, da buon argentino. Finora tutti bellissimi e anche il prossimo che ho appena finito conferma la regola: imprevedibile, un grande che merita di essere letto