«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
UP IN THE OLD HOTEL
Joseph Mitchell
Vintage 2012
Questo libro è in edizione originale, perché non c’è un’edizione italiana ed è un gran peccato. Adelphi ha iniziato a pubblicare qualcosa di Joseph Mitchell con Il segreto di Joe Gould (che è incluso in questo Up in the old hotel) e il microlibrino Una vita per strada (trad. Stefano Valenti, Adelphi, 2014), ma non sono che assaggi della bravura straordinaria di Mitchell come osservatore e interprete dell’anima newyorkese in un periodo di venticinque anni circa, dal 1940 alla metà degli anni ’60.
Mitchell era un giornalista del New Yorker, ma a leggere le sue storie si capisce che il senso del termine “giornalista” va rivisto radicalmente rispetto a quanto siamo abituati a pensare oggi. Somiglia molto di più a flâneur, un girovago cittadino che raccontava quello che vedeva e sceglieva di vedere quello che gli pareva a lui, con una evidente predilezione per il porto, i poveri, i quartieri popolari e le periferie lontane. Tutto, le storie, i personaggi, le piccole vite, è immerso nella grande New York, sono vite rurali condotte nel ventre della metropoli per eccellenza, ed è questo il contrasto che le rende stupefacenti. Strepitoso Joseph Mitchell.
Up in the old hotel è un libro imponente di 700 pagine che raccoglie gran parte degli scritti di Mitchell per il New Yorker. Attenzione, anche qui, “pezzi” va interpretato non con la lente odierna dei trafiletti ansimanti dei quotidiani, ma nel senso di racconti anche piuttosto lunghi, tra il reportage e il diario personale, alcuni addirittura parzialmente di fantasia, con personaggi immaginari che riassumono le sfumature di molte persone reali osservate o incontrate da Mitchell nelle sue peregrinazioni cittadine.
Up in the old hotel, quindi, è letteratura, non giornalismo, almeno per come lo intendiamo oggi (e questo forse dà il segno della crisi profonda del giornalismo moderno).
Alcuni racconti-reportage sono assolutamente strepitosi: per le storie che raccontano, per le persone, e il modo leggero di Mitchell di entrare nelle loro vite, spesso misere ma dignitose. O almeno, Mitchell le restituisce sempre come se fossero tutte dignitose.
Un’altra caratteristica di Mitchell è di riuscire a occupare lo spazio accanto alle persone che fa parlare ma sempre mettendosi in secondo piano, senza interferire troppo. Le persone di Mitchell parlano: un fiume di ricordi, aneddoti, motti, massime, voci che si intrecciano, e ancora descrizioni delle persone mentre parlano, ricordano e vivono nel loro piccolo mondo dei dock del porto di New York o nel pub o nel gabbiotto della cassa di un cinema, o lungo le strade di un quartiere o fuori città, a Staten Island e negli altri paesi di pescatori e allevatori di molluschi sparsi lungo la costa.
Con tutti e in tutti i casi Mitchell riesce a entrare in sintonia, fraternizza e si pone al livello dello sguardo del suo interlocutore e da quella quota osserva, ascolta e scrive. Col sorriso, con leggerezza, senza mai un accenno di moralismo o di giudizio perbenista.
Strepitoso il pezzo sugli zingari di New York, ad esempio, che si intitola King of the Gypsies. Fa parlare un poliziotto che racconta che gli zingari rubano e soprattutto come siano le donne ad essere abilissime nei raggiri. Racconta di come fanno, dei loro trucchi e del loro mondo arcaico e isolato. È un pezzo fenomenale che, immaginandolo ora sarebbe impossibile da scrivere. Sia perché non si vede un Joseph Mitchell all’orizzonte in grado di farlo, ma soprattutto perché oggi sarebbe infarcito di moralismo e retorica, e a seconda delle inclinazioni o degli interessi colmo di indignazione perbenista oppure traboccante pietismo assistenzialista.
There are at least one dozen gypsy kings in the city. All are elderly, quarrelsome, and self-appointed. One of them, Johnny Nikanov, a Russian, sometimes called King Cockeye Johnny by the detectives of the Pickpocket Squad, is a friend of mine. I became acquainted with him in the fall of 1936.
Voi ve lo immaginate uno dei nostri giornalisti-superstar, che so un Severgnini o un Gramellini o una De Gregorio, scrivere che un Re degli Zingari di origine bosniaca di un campo nomadi di Roma o di Milano è amico loro da molti anni? Misurate quanto è inconcepibile che ciò possa avvenire e avete la distanza tra la qualità di Joseph Mitchell e quella del giornalismo odierno.
Subito dopo King of the Gypsies c’è un altro racconto che si intitola The Gipsy Woman. Favoloso. Degno di Vance Packard e il suo I persuasori occulti per acutezza e capacità di sottolineare il tratto psicologico decisivo. Parla della donne zingare, ovviamente.
Joseph Mitchell davanti a Sloppy Louie’s
C’è il racconto degli indiani Mohawks e di come finirono per essere gli acrobati delle grandi altezze impiegati nelle costruzioni di ponti e grattacieli a Manhattan, poi c’è il racconto della Società dei Sordomuti, e quello, stupendo, del mondo visto con gli occhi della matrona cassiera in un cinema. C’è la storia di Sloppy Louie’s, il pub che non ammetteva le donne, le molte storie dei pescatori e dei dock del porto. C’è anche la storia di come New York rischiò un’epidemia di peste bubbonica. Racconta della vita dei neri che abitano in un angolo del Bronxs e di quelli discendenti da schiavi liberati provenienti dal Sud che allevano molluschi. Poi c’è la lunga storia di Joe Gould, l’unica di questa raccolta che si può leggere in italiano.
Un consiglio: è un libro molto lungo e una raccolta di pezzi scritti in venticinque anni. A leggerlo tutto d’un fiato talvolta può diventare pesante e ripetitivo; Mitchell ama tornare sulle storie per raccontarle di nuovo, da un’altra angolatura o seguendo lo sguardo e i ricordi di altri protagonisti. Ma questo ritornare non era pensato per essere letto a distanza breve, ma a distanza anche di anni. Ecco perché a leggerlo d’un fiato a volte può sembrare ripetitivo: si sta schiacciando la prospettiva che originariamente c’era.
Quindi, se vi fidate di un mio consiglio, chi lo vorrà leggere lo diluisca in un tempo lungo, lasci spazio tra un racconto e l’altro, lo appoggi sul comodino (vanno bene anche altri ripiani) e ogni tanto lo prenda in mano e ne legga un paio di storie, ma solo di tanto in tanto, come fareste con un dolce, da non mangiare tutti i giorni, ma solo a volte, per gustarlo senza farsi venire i brufoli o il mal di pancia.
Se gli lasciate spazio, Up in the old hotel è meraviglioso ed è davvero un gran peccato che in italiano ci sia così poco del grande Joseph Mitchell.
Ribadisco quanto già scrissi la prima volta che avevo letto Joseph Mitchell: se tra di voi c’è qualcuno che dispone di un divano da affittare a New York per un po’, me lo dica che sono seriamente interessato. Garantisco buone referenze, no cani, no fumo (ho appena smesso), no rompiture di scatole e no vandalismi. Grazie. Passo e chiudo.