«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
UN UOMO DI PASSAGGIO
Ben Lerner
Traduzione di Laura Prandino
Neri Pozza 2012
Finisco di leggere e subito scrivo queste note perché per me Ben Lerner è così: polveroso, fatto di talco, ha un’aroma che fatica a spandersi e si dilegua velocemente. È piacevole in certi giorni di calma cinica, è l’interprete del nulla che viene dopo la saturazione ottimistica e che aggiorna il vuoto esistenziale, con questo incarnando benissimo la letteratura americana contemporanea, anticipandone l’onda plastificata di un paio di passi. La sua cifra stilistica è l’attacco di panico: sa cos’è, non è il solito millantatore, sa come descrivere l’ansia che divora le budella senza cadere nel ridicolo o nel patetico, il che per uno scrittore contemporaneo è un talento molto apprezzabile.
Secondo romanzo che leggo di Ben Lerner ma primo dell’autore, quindi precedente a Nel mondo a venire, del quale anticipa parecchio. Molto dell’impostazione nei confronti della letteratura, se così si può dire per non dire niente di concreto. Molto di un malessere interessato e narciso che porta a svuotare dall’interno le parole, le trame, lo scrivere trame fatte di parole, il romanzo, la letteratura, l’esistenza come categoria del ragionare occidentale e la ricerca di senso laico come prerogativa dell’uomo moderno, urbano, acculturato, perfettamente integrato e isolato come un lupo, dedito ad atti di autolesionismo di vario genere, per noia scambiata per disperazione. Di tutto questo mio circumnavigare una minuscola briciola di significato, però, il dato incontestabile e certo che accomuna Un uomo di passaggio con Nel mondo a venire è l’incomprensibile e vagamente imbarazzante intolleranza degli editori italiani nei confronti dei titoli originali. Del secondo il titolo originale era 10:04, di questo è Leaving the Atocha Station. La stazione di Atocha, per chi non ricorda (e giustamente non ricorda), è la stazione di Madrid dove avvennero gli attentati di al-Queida del 2003. Di nuovo, con il cambio di titolo si stravolge il senso del titolo (chissà se avremo mai un Ben Lerner integro in Italia). Nel caso di Sellerio si perde il tratto sarcastico e adolescenziale di una presa in giro (RICORDA: mai prendere in giro il lettore italiano! È più permaloso di una femminista vegana). Nel caso di Neri Pozza (cioè nel caso di questo libro, per chi non avesse notato il nome dell’editore) quello che si perde è la normalità del cinismo che ormai viene rivendicata come tattica di sopravvivenza dai ricchi rifiuti umani ben nutriti dell’epoca della disillusione nei confronti del progresso. Leaving the Atocha Station significava due cose: una domanda che il lettore si poneva inevitabilmente prima della lettura (“Che cazzo è Atocha Station?”) e un senso di polverosa incapacità ad essere esseri umani compiuti dopo aver letto cosa intendeva Lerner con “andarsene dalla stazione di Atocha” o “partire dalla stazione di Atocha”. Un uomo di passaggio semplicemente non vuol dire una mazza, come Nel mondo a venire non voleva dire una mazza. Sono titoli distopici, per dire una frase da essere umano incompiuto.
La storia si svolge a Madrid e l’interprete si chiama Adam, è americano, è giovane e scrive poesie, si trova in Spagna nel 2003 grazie alla borsa di studio di una fondazione. Tutto questo accadde veramente a Ben Lerner.
È autobiografico, quindi? Sì, no… boh!… il punto è proprio questo: boh! Lerner gioca esattamente con questo inevitabile Boh!, il Boh! portato a modello dell’inevitabilità dei ragionamenti sull’uomo moderno occidentale, possibilmente americano, benestante e intellettuale.
Boh!
Cercate un senso? Novecentescamente volete dipanare il flusso di coscienza che vi rovista nel petto per rovesciare su pagine, note, visioni e composizioni plastiche la vostra dilaniante ricerca di senso? Il senso della vita, dell’amore, della morte, della vita dopo la morte? Il senso di sé? Ancora vi interrogate e confidate nella letteratura come un tramite, un medium o una pozzanghera nella quale riversare le domande esistenziali?
Siete obsoleti. Novecenteschi. Siete stati scavalcati dal fronte d’onda del presente e quello che osservate all’orizzonte credendolo le nebbie del futuro non è altro che la polvere sollevata dai piedi dei contemporanei in marcia nel deserto. È solo un Grande Boh!, niente di particolarmente serio; basta non pretendere di spiegare o di dare un senso al presente.
Le storie di Lerner sono così, e questa lo è in modo molto esplicito. I personaggi vivono, si incontrano, scopano ma non necessariamente, si ubriacano e si drogano, parlano di arte, vivono momenti di grande piacevolezza, vivono con la naturalezza dell’inevitabile il loro trovarsi nel centro di una grande città, e assumono tranquillanti per placare l’ansia da domande che immancabilmente portano a un’unica risposta accettabile da intelligenze mediamente superiori alla media: Boh!
Chi sei? Boh! Che vuoi dalla vita? Boh? La ami? Boh! Ti ama? Boh! Hai mai amato? Boh? Sei degno di amore Boh! (ma tendenzialmente No!) Vuoi scoparla? Boh! (ma tendenzialmente Sì!) Vuoi fare l’amore? Boh! Che farai? Boh!… Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!Boh! Boh!
Ora mi sento boblerneriano.
Quei periodi di pioggia o periodi tra una pioggia e l’altra durante i quali fumavo e leggevo Tolstoj sarebbero stati, già lo sapevo, impossibili da raccontare, e quell’impossibilità entrava a far parte dell’esperienza; la peculiare tessitura della mia solitudine derivava in parte dalla sensazione che potevo condividerla, descriverla, solo come pura transizione, lenta dissolvenza tra le scene, noia, come la monotona terza fase del mio progetto, priva di ogni contenuto intrinseco.
Quando gli interpreti si confidano, dove però anche la confessione è mediata da un involucro di estraneità, chi è isolato in senso emotivo è estraneo rispetto tutti, anche rispetto se stesso, quindi niente di simile alle grandi confessioni letterarie romantiche, allora, quando si confidano le proprie timide speranze, subito si ritraggono davanti all’idea stessa che esista un futuro progettabile, incanalabile in una guida di eventi concatenati a decisioni. Rifiutano con lucidità oggettiva l’idea stessa di condivisione di qualcosa che non sia presente. Sono interpreti problematici e tormentati che hanno accettato come normale la loro condizione, la scienza medica li sostiene con le opportune pillole e il mercato degli stupefacenti e degli alcolici offre loro la piacevolezza della condizione di essere incompleto, inespresso.
Avevo lasciato scivolare via il sorriso. «Lui sa di me?». Mi veniva da piangere. Cercai di desiderare Teresa, ma non ci riuscii.
«Tutti e due abbiamo avuto altre persone. Non ci facciamo domande» disse lei. Mi chiesi quante altre persone avesse avuto di recente. «Proprio come non ci facciamo domande io e te» aggiunse. Evidentemente sperava che avessi altre relazioni.
«Claro» dissi io ricomponendo il sorriso come a dire che ero andato a letto con metà delle donne di Madrid.
«Lo ami?». Domanda stupida e scontata.
«Sí» rispose lei, confermando con il suo tono che era una domanda stupida e scontata.
Anche la prosa è adattata alla congenita ipocrisia del presente: Lerner scrive frenetico, ansiogeno (ma senza patologie serie, solo ansia da incompletezza o da intelligenza), confuso e narcisista quando i personaggi pensano, durante i soliloqui e i rigurgiti di coscienze figlie del benessere. Cambia registro nei dialoghi: rallentati dalla banalità degli inespressi, ottusi per la mancanza di condivisione, insignificanti come lo sono tutte le parole pronunciate solo per riempire un’assenza.
Un uomo di passaggio è, credo, un libro nel quale molti riferimenti culturali cercano di essere adattati all’attuale. Il bohémien ottocentesco trasportato nella modernità perde l’esoticità dell’oppio e dell’assenzio per stordirsi con hashish e marijuana, e si illude, ma senza convinzione, di mantenere quel fermento artistico che nasce dal consegnarsi completamente ai sensi. L’intellettuale novecentesco che ragiona tormentandosi sugli abissi dell’animo umano e sulla ferocia della società degli uomini permane imbolsito dall’ozio e dai lussi che la sua condizione di privilegiato classista gli consente. Il contestatore sessantottino transitato al libertinaggio sessuale degli hippy conserva solo un condiscendente ritualismo da educato manifestante per l’aristocratica società civile e una utilità marginale decrescente che regola l’atto sessuale.
Sapete cosa sospetto? Che Ben Lerner abbia ragione. Che stia proprio descrivendo bene il presente. Per questo da un lato mi affascina ma dall’altro mi sembra polveroso, non lascia nulla se non un fastidio epidermico e una sensazione di sporco e di imbroglio. Sospetto che sia colpa mia, non sua. E allora ci torno e mi sembra già più familiare, tutta quella polvere sollevata per nascondere niente.