«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SCRITTI APOLIDI
Julio Ramón Ribeyro
Traduzione realizzata dagli allievi della scuola di specializzazione in traduzione editoriale Tuttoeuropa, Torino – Corso 2013/2014/Lingua spagnola – A cura di Gina Maneri
laNuovafrontiera 2015
Commento di Cornelio Nepote
Inizia Ribeyro con il brano numero 61, un brano di profonda afflizione:
Quelle mattinate nulle, cancellate, nelle quali ascolto musica senza sentirla, fumo senza far caso al sapore di tabacco, guardo fuori dalla finestra senza vedere nulla, perdo in realtà ogni contatto con la realtà senza per questo entrare meglio in contatto con me stesso, quelle mattine, né nel mondo né nella mia coscienza, fluttuo in una specie di terra di nessuno, un limbo da cui sono assenti sia le cose che le idee delle cose, e non mi lasciano in eredità nient’altro, quelle mattine, che una durata senza contenuto.
Tocca a Nepote a rispondere! Lo fa con il brano A87K23BV, di afflizione decuplicata (inedito, per gentile concessione dello stesso autore):
Quei dopopranzo ombrosi, incolori, nei quali danzatori dervisci roteano nel mio stomaco fino a piroettare nell’esofago, salgono al gargarozzo, si cavaturacciolano nelle narici ed echeggiano con corpulente russate. Dormoveglio incerto tra la vita vivente e il coma da indigestione, quei dopopranzo nei quali la mia anima trasmigra in quella di un antico feudatario borbonico, in un tempo che precede il mio tempo, una vita vissuta prima della nascita, come uno specchio che riflette le immagini di ieri o del giorno prima ancora, quei dopopranzo, che m’abituano alla morte.
Ancora Ribeyro con il brano numero 16, acuto e provocatorio, nonché gagliardamente virile:
Una donna, come ravviva una casa. Senza di lei, le cose languono. Tutto si copre di polvere e appassisce. Nel vaso un mazzo di fiori secchi, la cassettiera piena di lanicci, la lampadina dell’abat-jour fulminata, i vestiti sporchi. La donna intrattiene con gli oggetti della casa una relaziona assidua. Sono le sue cose, è possessiva, lei, e ci si affeziona e le coccola.[…]
Nepote rintuzza e rilancia con il brano numero 87AK32VB (inedito, l’autore gentilmente concede):
Le donne, m’hanno lucidato la vita come solo loro sanno lucidare le maniglie d’ottone della casa natia. Unto di gomito! dicono a una voce, ma io invece preferisco dire Ambrosia dei seni prorompenti! – che non vuol dir niente ma fa onore allle curve che mai si vorrebbero trasformate in rettilinei, ai tornanti che è dolce percorrere a passo di mano, assaggiando la strada più che anelando la meta; ma anche anelando la meta, eppur senza fretta, come una donna quando prepara l’arrosto succulento.
Infine Ribeyro piazza la stoccata decisiva con il brano numero 162:
L’uomo che mentre cade nell’abisso ha la forza di ammirare la rosa che fiorisce tra le rocce. L’uomo che mentre sale sull’Olimpo versa una lacrima per il falco guercio in volo che incrocia sul suo cammino. Immagini edificanti. Mi danno sui nervi le immagini edificanti.
È Nepote che chiude tentando il colpo a sorpresa con il brano 32BVKA78 (inedito, gentilmente concesso dall’autore):
L’uomo che atterrato da un colpo apoplettico getta un’occhiata alle cosce succose della ventenne premurosa che lo soccorre. L’uomo che in attesa palpitante della sposa velata si commuove incrociando lo sguardo dell’amante storpia di un tempo al ricordo degli ardori da maratoneta. Immagini carnali. Viene mal di pancia a immaginare soltanto.
…Ladies and gentlemen… and the winner is… ta-ta-ta-ta-ta… RIBEYROOOOOOOO
Vabbo’ vabbo’… carucci miei, piaciuto lo scherzuccio? Era per mettervi di buon umore… che sarà mai…. uno scherzuccio… mica volevo offendere il signor scrittore Julio Ramón Ribeyro.
Ma no, è solo che… come ve la devo dire… ci siamo capiti, no? Siamo intesi io e voi, nevvero, carucci miei? Che io prima l’ho letto questo Scritti apolidi, poi forse che pensavo alle ventenni sgambettanti, chissà com’è chissà come non è, fatto sta che passano due giorni e non mi ricordo più manco una mezza parola… maronna!… il vuoto pneumatico! Una roba che neanche l’Apollo13 l’ha visto. Niente, nada, mare piatto. Allora ho detto Saranno stati gli ormoni! Mo’ aspetta che lo rileggo, e l’ho riletto. Solo che poi è sbucata non so da dove donna Ginestra dello Manero che m’ha apostrofato Ma avete capito che era malato?, dicesse lei, e io Ma’cchi sta malato?, dicessi io, e la gran dama mi fece Ma il Ribeyro, lo scritturo, era malato, c’aveva il canchero delle sigarette, ma’cchè non lo avevate capito?, e io che non stavo a capire niente di quello che diceva, ma mi toccavo ripetutamente facendo le corna e dicendo Tié tié, io aggio smesso di fumare!, allora io faccio Assì e si capisce che ce l’avevo capito, ma per chi mi prendete donna Ginestra!, e invece l’ho letto per la terza volta e in effetti si capiva proprio come diceva chilla gran signora.
E mi dispiacque assai, che vi devo dire, si capisce che poveretto sapeva di appressarsi alla morte e certi brani sono proprio desolati. Non tanto disperati, ma certamente desolati. A volte avviliti pare. Fa venir tristezza. Per questo ho pensato Mo’ faccio uno scherzuccio.
Però poi certe volte, forse erano giornate iniziate col piede sinistro, scrive pure delle fesserie, come quelle sulle donne, o gli italiani o questo e quello. Insomma, certe volte sembra pure un poco strunzo, ma non proprio strunzostrunzo, più come quando uno è un poco dissociato, uno isolato, uno che non riesce a vivere vicino al mondo, ma sempre un poco lontano dal mondo, m’intendete?, e allora è per questo che sembra un poco strunzetto. Dispiace dirlo di uno che era malato, ma se uno è un pochetto strunzettino c’è caso che lo rimanga anche da malato. Magari solo certi giorni. Altre volte invece scrive proprio bene assai. Dice cose profonde. Cose belle da leggere, che mi veniva da dire Ah questo è proprio un bel brano!, altre volte però dicevo Chist’è ‘na strunzata! oppure Maronna qui stava proprio uno straccio, oppure Uè qui non c’aveva voglia di scrivere e così via. Che vi devo dire, carucci, sono Scritti apolidi, che non si sa dove c’hanno casa, ma pure scritti un poco squinternati e pure un pochetto sgarrupati. Per me Ribeyro era pure un poco napoletano in verità, a me sembra proprio acussì. Scritti napoletani potevano chiamarli, anche se a Napoli nun c’è mai andato. Ma c’è sempre una prima volta, no? E se non c’è noi facciamo finta che ci sia stata. Facciamo un trucchetto, carucci, e tutto s’agghinda. Per me a lui gli sarebbe piaciuto.
V’abbraccio a tutti quanti calorosamente e pure a Ribeyro lo abbraccio.
Cornelio Nepote