«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CHIARORI
Göran Tunström
Traduzione di Fulvio Ferrari
Iperborea 1999
I preparativi dell’amore.
E la sua realtà: al primo incontro era molto imbarazzata e dichiarò di essersi dimenticata il corpo a casa. La volta seguente aveva solo il corpo con sé, e non volle darmelo perché “altrimenti come faccio a tornare a casa?” Ma la terza volta lei, la mia amante di novembre con una linea azzurra sull’inguine, era completa.
Che Göran Tunström sia un grande scrittore è un dato di fatto nel mondo di quelli che io chiamo dati di fatto. È da L’Oratorio di Natale, il primo suo libro che ho letto, che lo so. È stato molto semplice capirlo, sono bastate poche pagine per constatare il passo di marcia. È un fondista, uno da lunghe distanze, perfino un maratoneta e lo si vede bene che la cadenza che tiene è quella del campione che sa di essere più forte di tutti e amministra il suo talento con giudizio: pacatamente, giudiziosamente, come se fosse una cosa naturale, consuma la strada e gli avversari. Vince per distacco e per ammirazione. È un eroe classico, un campione di quelli da filmato d’epoca, da insegnare ai bambini dicendo “Vedete cosa sapeva fare?”.
Così per me è Tunström: un talento letterario stratosferico che fa della pacatezza la sua cifra stilistica. Non è un folle, un cinico un sensuale un ardimentoso ma nemmeno un minimalista o un cesellatore di minuzie oppure un collezionista maniacale un ossessivo o un prosatore incontenibile. È pacato, come ci si aspetta da uno svedese. Ha i movimenti lenti e possenti dell’alce, la sua capacità di srotolare una storia che si amplia e si inoltra nel tempo e nello spazio lascia stupefatti.
Ma d’altra parte è anche straordinariamente immaginativo. Le storie di Tunström sono talmente dense di lampi di immaginazione che quasi sembra di trovarsi di fronte a uno di quei grandi dipinti di un maestro del Rinascimento, così pieni di figure, di caratteri, di espressioni e di mille scene riprodotte e inserite le une nelle altre. Così per me è Tunström, rinascimentale potrei dire.
Ed è anche uno da lettura lenta. Poche pagine alla volta, riprendendo ogni volta una storia che già si è mezza dimenticata – A che punto eravamo arrivati? Cosa stava facendo? – riabituandosi a quel passo lento e potente, alla sua pacatezza che all’inizio, ogni volta, stranisce, verrebbe da dire “Forza, dai, più veloce!” perché si vorrebbe accelerare, ingozzarsi di pagine e invece, pur frementi, si è costretti ad accordare il proprio passo al suo. Il respiro si calma, la frenesia si quieta, gli occhi si fissano e lo sguardo si serra. La mente si sgombra e finalmente ci si svuota per rimanere soli con se stessi e le parole. È allora che Tunström diventa magico.
Chiarori è speciale. Mentre i due precedenti, L’Oratorio di Natale e Il ladro della Bibbia, non so quale sia il più straordinario, erano i canonici grandi libri, maestosi, ricchissimi, con storie che si srotolavano meravigliosamente, qui, Chiarori è tutto l’opposto (in parte). Intanto non è ambientato in Svezia e tanto meno nel piccolo paese di Sunne ma in Islanda. Ed è comico per lunga parte (comico come può esserlo Tunström, ovviamente, mica è Crozza) giocando sulla esilarante società islandese, talmente minuscola numericamente che non è poi così improbabile che il cugino sia un ministro e il falegname diventi ambasciatore e quello che abita due porte più in là perfino Primo Ministro. Da qui la comicità dei personaggi – dai nomi impronunciabili penso anche per uno svedese – che sono, da un lato, paesani e sempliciotti, dall’altro ricoprono prestigiosi incarichi statali. In più, oltre alla curiosa vena comica, Chiarori non ha la consistenza maestosa dei due precedenti; non è la storia che si svolge come un gigantesco arazzo; è invece episodico, frammentato, quasi fatto a scenette, perfino disomogeneo, saltando dal comico allo spirituale.
Ma ha anche un che di misterioso Chiarori, cela la sua natura, occulta invece di mostrare. In Chiarori Tunström sembra voler parlare in prima persona, e talvolta lo fa davvero, come se avvertisse una necessità che non poteva essere mediata da una grande storia e un grande libro. Come se avesse desiderato spogliarsi del suo immenso talento di narratore per tentare di parlare in una lingua diversa. Una lingua poetica, la lingua privata, intima, la lingua della nudità. E per farlo ha mescolato gli ingredienti, ne ha infilati di bizzarri e ha tolto i suoi tradizionali: ha abbandonato Sunne, si è spogliato della sua cadenza, ha usato toni leggeri. Ma ha anche liberato la penna alla poesia. Chiarori ha squarci poetici commoventi, lampi di luce bianca che abbagliano. Nel finale il libro ruota, la rappresentazione da teatro di burattini si esaurisce, termina la storia e termina la vita del padre. Sempre quando il figlio si afferma il padre regredisce. È l’eterno gioco di giovinezza e vecchiaia.
Il finale di Chiarori con il dialogo ormai impossibile tra i due, il padre che scivola nel delirio senile e il figlio che gli si avvicina è semplicemente meraviglioso, uno dei pezzi di grande letteratura senza latitudine o tempo.
Eppure sembra come se Tunström si sia preoccupato di non far apparire il libro come quello del grande dialogo tra padre e figlio, o il libro della vecchiaia, ma abbia volutamente disciolto tutto questo nel suo testo più leggero e scanzonato.
Ma c’è un altro finale. Questo ve lo trascrivo interamente. Emozionante. Una poesia.
Sì Arnesen, vi abbandonerò presto.
Sì, lettori, abbandonerò anche voi, perché c’è un silenzio che ha chiesto di poter essere presente, e l’ha chiesto con una forza tale da non potergli dire di no.
Ma prima voglio porre su questa scrivania sgombra una candela, una candela bianca, sottile, la cui fiamma illumini la strada per uscire dal racconto.
Sono davvero rimasto seduto come un bambino ad ascoltare tutte questa storie? Ho mai amato una donna nell’erica? Ho levato la mia voce contro tutti i volti dell’ingiustizia? A volte penso che Lára, che ancora riesco a materializzare dal nulla, sia stata la mia unica interlocutrice. Lára, sempre assente, così intensamente assente come solo un angelo può esserlo. Forse non ha importanza. Alla fine tutto ciò di cui viviamo è assente. Alla fine ci siamo comunque immaginati la nostra vita, abbiamo scritto una canzone che indugia ancora per un breve istante sulla superficie della terra dopo che l’eco dell’ultima nota si è spenta. Per questo la candela, che dice: il racconto è stato qui, la fiamma debole, debole e vacillante.
Silenzio. Un sorriso a occhi chiusi.
Le più belle parole (le più vere) che avrei potuto leggere, su Chiarori e su Tunström. Non che ne abbia trovate molte. E questo mi porta a chiedermi perché Tunström sia così poco conosciuto. Ho letto Chiarori vent’anni fa, poco dopo la morte di mio padre, ed è proprio la poesia, presente in ogni pagina, anche in quelle più divertenti (forse per la leggerezza e lo sguardo di un bambino con cui sono raccontate) che mi ha colpito profondamente. Quest’anno ho comprato tutti i libri di Tunström che sono riuscita a trovare, sto leggendo L’Oratorio di Natale, e davvero mi sento alla presenza di qualcosa di epico, raccontato però come se non lo fosse, ed è forse tutta qui la sua potenza. Grazie per gli spunti di riflessione.
Me lo sono chiesto spesso anche io perché Tunström non sia noto come meriterebbe. A dire il vero me lo sono chiesto spesso per molti autori e ho provato a convincermi di varie spiegazioni, più o meno accusatorie nei confronti degli editori, dei librai, della scuola, dei lettori, della televisione, dei giornali, di internet, degli inserti culturali, delle classifiche di vendita, degli uffici stampa, di tutto e tutti. La verità è che non lo so il perché, forse a molti semplicemente non piacciono autori come Tunström, magari perché richiedono un gusto troppo dettagliato, come per chi è appassionato di icone bizantine, per esempio.