2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Tre tristi tigri – Guillermo Cabrera Infante

tretristitigri

TRE TRISTI TIGRI
Guillermo Cabrera Infante
Traduzione di Leonardo Lojacono
Il Saggiatore 1993

[Libro disperso]

Perché ho letto questo libro? Bella domanda. Perché?

SUR ha pubblicato un titolo di Cabrera Infante che si chiama Ninfa incostante e mi aveva incuriosito. Potevo anche scegliere quello, l’ho avuto in mano per un po’, sfogliato, rigirato, poi invece mi sono accorto di questo tomo (è un tomo) con questo titolo che sembra uno scioglilingua… tretistitigri… tretistritigri… tretristitrigri… tritrestitigri… Tre tristi tigri. Non vi sembra anche a voi che un libro che suona come uno scioglilingua abbia qualcosa di speciale? Deve essere per forza o una strepitosa vaccata da lanciare dalla finestra oppure c’è della follia in quelle pagine o almeno della bizzarria.

Insomma, io da Tre tristi tigri sentivo profumo di scrittura di sangue e capriole, scrittura da funamboli dei tropici, osservatori esotici delle buone maniere dei vecchi europei. Gente sudata e cosparsa di aqua di colonia che con una penna in mano sapeva ballare la rumba e cantare tutta la notte. E in più c’era il fascino cubano degli anni Sessanta, alla fine di un’epoca, quando tutti sapevano che si ballava e si suonava nei night club aspettando l’alba di una Cuba diversa. Somiglia moltissimo alla Vienna dell’Impero alla vigilia del collasso raccontata ad esempio da David Vogel ne Romanzo viennese. L’Avana degli anni ’60 come Vienna degli anni ’10, che parallelo da ubriachi. Ma ci sta nel mondo degli scioglilingua anche fare paralleli che incespicano e dove il merito è proprio quello di incespicare perché è solo in quel momento che si prende nella dovuta considerazione l’esistenza di una terra, dura, sporca e necessaria.

Il libro è di lettura difficile e faticosa. Non ha una trama ben delineata, la trama è la vaghezza, l’assenza di un piano e la costruzione artistica che si produce per aggregazione e ripetizione come un frattale alcolico che tenta di mantenere la simmetria senza riuscirci.
Cabrera Infante è pirotecnico e circense, la sua scrittura è un continuo guizzare tra artifici letterari e invenzioni stilistiche con i personaggi che parlano creando ogni volta una propria lingua, una propria poetica; sensuali, dissennati, cinici, artisti senza arte né parte, croonies e Gran Puttane, scrittori, attori, cantanti. È raffinato e cialtrone Cabrera Infante, è una scrittura meticcia la sua, da negro scopatore di ricche bianche, sempre impegnata a mescolare le radici culturali europee con la dissolutezza di una Cuba trasformata in un grande night club per turisti.

I personaggi che si succedono sono decine, i principali sono memorabili: La Estrella e Cuba Venegas, Arsenio Cué, Silvestre e Bustrófedon. La voce narrante è quasi sempre maschile, cangiante, si confonde e si scambia, ci si perde, talvolta non si sa più chi stia parlando, dove siano, cosa stia accadendo, si sa che sono lanciati su un’auto per strade notturne o immersi nell’oscurità di un locale e questa voce imperterrita logorroica continua a parlare, di tutto e di niente, discorsi senza capo né coda, come le vite notturne dei personaggi, infilando mozziconi di parole e frasi recitate unicamente per gusto estetico, tanto per sentirne il suono e ridacchiare delle delle simmetrie che si smontano, delle bizzarrie sintattiche, per gusto dell’improvvisazione.

Esplodo in risate sismiche, ma Silvestre mi interrompe. Aspetta, ‘spetta, come dice Ingrid, che il racconto non è ancora finito. Abbiamo passato, mi dice Silvestre, la notte o quel che rimaneva della notte nella maniera migliore possibile, e io alleviato dalle sue mani esperte e quasi soddisfatto, mi sono addormentato in Estasi e quando mi sveglio, e si sta già facendo giorno, guardo verso la mia adorata e vedo che la mia co-star è cambiata con la notte, che il sonno l’ha trasformata, e insieme al vecchio Kafka io chiamo questo una metamorfosi e benché non abbia al mio fianco Gregorio Samsa ho pur sempre un’altra donna: la notte e i baci e il sonno le hanno tolto non soltanto il rossetto, ma tutto il maquillage, tutto, sopracciglie perfette, ciglia lunghe e grosse e nere, il colore fosforescente e, aspetta, aspetta, mi dice, non ridere ancora e tienti ben stretto che sto per far ondeggiare la barca: lì, di fianco a me, tra lei e me, come un’abisso di falsità, c’è un oggetto giallo più o meno rotondo e setoso, lo tocco e faccio un balzo: ha dei peli. Lo prendo, mi disse, nelle mie mani con grande precauzione e lo guardo bene alla luce ambiente ed è, accordo musicale da ultima sorpresa, una parrucca! La donna è calva, mi disse, completamente calva.

Da un certo punto di vista o per alcuni, Tre tristi tigri è di certo un grande libro, una Odissea joyciana in salsa tropicale. Da altro punto di vista è un libro di un’epoca e una letteratura che non condivide quasi più nulla con l’attualità. Visto con gli occhi di oggi può apparire una bizzarria. Come una sinfonia silenziosa o un taglio sulla tela oppure una scrittura come una pioggia di coriandoli colorati. Erano tempi molto diversi. Oggi per lo più ci si limita a commentare il prezzo di una tela tagliata, dimenticandosi che sono state le puttane da marinai le più grandi insegnanti di scrittura del mondo.

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