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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Storie di Amsterdam – Nescio

nescio

STORIE DI AMSTERDAM
Nescio
Traduzione di Fulvio Ferrari
Iperborea 2015

Nescio è lo pseudonimo di Jan Hendrick Frederick Grönloh, buon borghese olandese che si dilettava a scrivere nei primi decenni del Novecento senza riscuotere successi degni di nota. Il tipico caso di scrittore in immersione nel grande stagno paludoso della vita. Non ho alcun dubbio nel credere che Grönloh fosse persona di molti talenti e di molteplici espressioni, uno di quelli che la biografia non rappresenta per nulla. Certo non il paludato scrittore notturno e il diurno commerciante di successo.

Storie di Amsterdam raccoglie sostanzialmente tutta la produzione significativa di Nescio/Grönloh, fatta di racconti che partono con Lo scroccone del 1909-10 nel quale si presenta il personaggio che scrocca a destra e a manca, poi si passa a Giovani titani del 1914, probabilmente la sua opera migliore, ci si infossa con Il piccolo poeta del 1917, e infine si termina compiendo un salto notevole con Mene Tenkel, a sua volta una raccolta di brani brevi che spaziano dal 1914 al 1943.

Un ultimo papavero ondeggiava la settimana scorsa a un alito di vento. Sul pero contorto le pere prendevano già un po’ di colore. È di nuovo l’inizio del secolo. La vita, grazie a Dio non mi ha insegnato quasi niente. «La vita mi ha insegnato molto» dice il vecchio idiota.

Finisce così, nel 1943 l’immersione di Grönloh, ma era iniziata in modo molto diverso. Anzi, in modo del tutto opposto. Come scrive Cees Nooteboom nella postfazione, il carattere rivoluzionario della scrittura di Nescio venne olimpicamente ignorato dai bravi olandesi suoi contemporanei, e riconosciuto (ci sarebbe da capire come riconosciuto) solo negli anni Sessanta e Settanta, con Nescio/Grönloh già bello che sepolto.

Ed è proprio su questo che ci si deve soffermare, io penso. Rivoluzionario in che senso? A leggere queste Storie di Amsterdam tutto si può pensare tranne che a qualcosa di rivoluzionario. Anzi, è difficile anche immaginare per assurdo di cogliere un respiro rivoluzionario in quelle storie.

Torniamo al grande Nooteboom:

[…] quel linguaggio immaginifico, sublime, veniva come spogliato dalla nuova prosa di Nescio; il sacerdotale manierismo di una generazione veniva smantellato da una nuova, olandesissima sobrietà, dal linguaggio di un’arte povera che adottava un manierismo nuovo, fatto della massima semplicità.

Ahhhh… eccolo qui! La rivoluzione dell’arte povera nelle lettere olandesi, quindi. Arte povera. Notoriamente l’arte povera decontestualizzata e astoricizzata sembra parecchio povera e poco artistica. Questo è anche un po’ il destino di Storie di Amsterdam, la svolta introdotta da Nescio che superava il canone dello stile immaginifico con uno stile minimale, un tono sussurrato, tranne che in qualche tardiva sferzata, e delle storie apparentemente monocorde, tende a sbiadire pagina dopo pagina. L’attenzione scivola. La memoria non si fissa, se non per qualche dettaglio archetipo: lo scroccone, Koekkebakker. La spinta rivoluzionaria di Nescio scompare. Visto e letto da qui, non c’è alcuna rivoluzione, a meno che non vogliate farvi un giro nella letteratura olandese ottocentesca.

Ma se quella svolta viene a mancare, cosa rimane di queste storie? E poi, perché mai negli anni Sessanta e Settanta guadagnarono fama ed estimatori? La risposta a quest’ultima domanda non la so, di cosa pensassero negli anni Sessanta e Settanta non ne ho cognizione abbastanza precisa e temo molto – ma proprio molto molto – che anche avendola la risposta non sarebbe così soddisfacente. Invece, per la prima questione, cosa rimane?, posso dire questo: non rimane nulla di rivoluzionario, rimane un arte letteraria povera, minimalista, che rifugge ogni ricciolo, ogni voluta, ogni salto tonale, ogni baraonda sulle righe, ogni piroetta e anche dai colori troppo accesi, rimane un panorama olandese fatto di dighe e di campi e di strade grigie e di tinte che si mescolano, rimangono personaggi che si mimetizzano, si immergono, come ha fatto anche Nescio/Grönloh nella sua vita di scrittore. I personaggi non emergono e non sprofondano, sono uomini degli strati medio-bassi, della sospensione a mezz’altezza.

Eppure, hanno un carattere misterioso. La banda di compari che procede indolente lungo le pagine e salta da un racconto all’altro, scompare per poi riapparire, vestiti di noia e di tono annoiato, malinconici pedanti nella loro non accettazione del mondo, riesce a risaltare.

Come dice Nooteboom, Nescio adotta un “manierismo nuovo” e c’è eleganza, stile, sapienza e talento in quel manierismo, c’è un accordo di voci e di immagini calibrato con estrema precisione e il risultato, noioso e annoiato che sia, ha la grazia dell’equilibrista che apparentemente senza sforzo cammina su una corda quasi impercettibile. Non fa nulla che non sia camminare e non cadere. Per questo lo si ammira. Lo stesso vale per Nescio e le sue Storie di Amsterdam.

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Questa voce è stata pubblicata il 8 agosto 2015 da in Autori, Editori, Iperborea, Nescio con tag , , , .

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