«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
L’INDUSTRIA DELL’OLOCAUSTO. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei.
Norman G. Finkelstein
Traduzione di D. Restani, R. Zuppet e C. Balducci
Rizzoli 2004
Qualche parola di introduzione a questo libro è necessaria.
Qualcuno di voi avrà visto recentemente sui quotidiani italiani passare, senza alcun commento sensato o approfondimento di sorta, ma quasi come semplice curiosità, gossip pre-estivo, costume&società o notizie curiose dal mondo, ovvero il campionario della tipica sciatteria giornalistica italiana, una notizia che parlava di conti dimenticati in banche svizzere e addirittura bofonchiava di ombre della Shoah, tanto per fare un po’ di scena. Leggendo i pezzi si trovano vaghi riferimenti a diatribe degli anni ’90 tra i banchieri svizzeri e il Congresso Ebraico Mondiale (World Jewish Congress – WJC) sull’ammontare dei risarcimenti per i superstiti dell’olocausto o per gli eredi. Si trovano, come al solito, informazioni imprecise, frammentarie, di una superficialità e grossolanità abominevole e senza alcun riferimento utile per approfondimenti ulteriori.
Trafiletti con quattro cazzate in croce che in maniera insultante suppongono che i lettori siano una mandria di bifolchi. Io non ho un buon rapporto con la stampa italiana.
Ma torniamo a noi e al libro perché la vicenda è intricata e interessante.
Sull’Olocausto è stato scritto molto. In passato sono emerse posizioni negazioniste, unanimemente (tranne per pochi fanatici neonazisti) rifiutate come pura propaganda tesa a negare una verità storica incontestabile: nei campi di sterminio nazisti morirono cinque-sei milioni di ebrei (di solito viene riportato sei milioni, ma la stima varia tra gli storici). La storia ha tramandato l’orrore concentrazionario attraverso diari di grande popolarità come quello di Anne Frank o memorie di sopravvissuti diventati scrittori di prima grandezza come Primo Levi o Viktor Frankl. Ogni anno le celebrazioni mantengono vivo il ricordo e molti di noi ne fanno un punto di onore il continuare a leggerne e parlarne. La distruzione degli Ebrei d’Europa di Raul Hilberg è un testo storico di riferimento che Einaudi ha lasciato esaurire e reso non più disponibile. Per favore, troviamo un attimo per rivolgere tutti quanti i complimenti alla stimabile casa editrice Einaudi.
Quindi, bene o male, in modo più o meno dettagliato, per informazione diretta o indiretta, si può ritenere di essere grossomodo informati degli eventi che vanno sotto il nome di Shoah, Olocausto, genocidio degli Ebrei europei nei campi di sterminio (ma anche dei Rom, degli omosessuali, dei portatori di handicap, dei Testimoni di Geova, e poi di polacchi, di bielorussi ed anche di comunisti e socialisti).
Il problema, per quel che riguarda la nostra informazione, è quello che avvenne dopo la guerra, cosa avvenne dopo l’Olocausto. E anche quello che avviene oggi, nei nostri anni, non decenni fa. Già perché l’Olocausto non è finito, non è ormai solo storia. Intanto sono ancora vivi dei sopravvissuti dei lager, c’è ancora chi ha vissuto quell’orrore, non solo un evento letto in un libro o guardato in un film o in un museo. Poi c’è l’infinito conflitto israelo-palestinese che ne è figlio illegittimo. Non esiste Israele senza Olocausto e non esiste nessun discorso geopolitico su Israele e gli Ebrei senza la Shoah. Per cui l’Olocausto è una presenza del nostro mondo, che piaccia o non piaccia bisogna farci i conti, e sono conti non così semplici da far tornare. Ad esempio sulla questione dei risarcimenti. E qui viene il libro di Norman Finkelstein L’industria dell’Olocausto.
Ora va detta una parola di cautela su Norman Finkelstein. È un ebreo americano, sessantenne, storico accademico studioso del conflitto israelo-palestinese e della questione dei risarcimenti. Ma soprattutto è personaggio controverso, molto discusso, uno di quelli che si mettono sempre di traverso e contestano furiosamente, uno schierato dalla parte che non dovrebbe essere la sua, uno che dice cose che fanno infuriare un sacco di gente. Nel suo caso, soprattutto fa infuriare il potentissimo, influentissimo, establishment ebreo-americano che si concentra dentro o attorno alle grandi organizzazioni ebree come il World Jewish Congress, la Conference on Jewish Material Claims Against Germany (o Claims Conference), i grandi musei ebraici americani e il Centro Simon Wiesenthal. Quindi, come dicevo, uno che provoca reazioni contrastanti. Alla fine, nelle Note ci sono alcuni riferimenti ad articoli che parlano di Finkelstein, se volete farvi un’idea.
Armati di questa dose di prudenza, posso finalmente dire qualcosa su L’industria dell’Olocausto, la cui traduzione di basa sulla seconda edizione del 2003, mentre la prima era del 2000. Intanto un particolare che nella traduzione italiana del titolo è stato dimenticato: Finkelstein usa il minuscolo “holocaust” per riferirsi all’evento storico, la Shoah, mentre usa “The Holocaust”, maiuscolo con articolo, per riferirsi al brand, al marchio di fabbrica, al nome proprio dell’industria, come lui la definisce, che dell’Olocausto (il fatto storico) ne ha fatto un prodotto da vendere: The Holocaust, L’Olocausto (come sarebbe dovuto apparire nel titolo, io qui ho usato sempre “Olocausto” altrimenti non si capiva di cosa parlavo).
Questa è la tesi di fondo: le grandi organizzazioni ebraico-americane hanno fatto dell’Olocausto un brand commerciale e un’industria per spremere risarcimenti, The Holocaust, manipolando la storia e la simbologia a partire dai conflitti arabo-israeliani della fine degli anni ’60 e inizio ’70. Prima di allora l’Olocausto non aveva avuto quella rilevanza simbolica imprescindibile come ha avuto in seguito (è innegabilmente incisivo Finkelstein nelle ripetute accuse di manipolazione ideologica basata sulla pretesa dogmatica unicità e incomparabilità dell’olocausto rispetto ad altri genocidi della storia, con il corollario dell’automatica condanna per negazionismo contro chiunque metta in dubbio tali postulati indimostrabili). Prima di quella svolta che ne ha cambiato la portata e il senso, la Shoah era un fatto, tragico e spaventoso, di una guerra costellata di carneficine in una storia umana che di genocidi e persecuzioni etniche non è mai stata avara. Dopo i conflitti israelo-palestinesi degli anni ’60-70, grazie a un apparato mediatico e culturale orientato politicamente, The Holocaust è nato come impresa politico-commerciale di matrice statunitense mirata sia a influenzare l’opinione pubblica mondiale per favorire la causa israeliana nel conflitto, sia ad appropriarsi della gestione dei risarcimenti. L’operazione, diretta dalle organizzazioni ebraico-americane e supportata dal governo americano, ha avuto il suo culmine negli anni ’90 con la presidenza Clinton, durante la quale le richieste di risarcimenti miliardari (in dollari) rivolti alle banche svizzere, alla Germania e all’Austria ebbero successo. Richieste che Finkelstein definisce ricattatorie ed estorsive, frutto di ciniche manipolazione del numero di sopravvissuti, delle ragioni alla base di un risarcimento e della distrazione dei fondi dai legittimi destinatari a progetti discutibili delle singole organizzazioni, oltre che a tasche private.
La tesi del libro è abbastanza incendiaria da far saltare sulla sedia parecchia gente, sia quelli per i quali l’Olocausto non può essere altro che l’orrore delle immagini di povera gente ridotta pelle e ossa e le baracche della morte, e sia, soprattutto, i sostenitori appassionati di Israele e delle grandi organizzazioni ebraiche americane.
Finkelstein, da una certa parte politica, è stato fatto oggetto di ogni improperio e accusa per la pubblicazione di questo libro, oltre che osteggiato nella sua carriera accademica, mentre da altri è stato salutato come una voce critica che rompeva la cappa di ipocrisia. Comunque sia, pur mettendo in conto un certo grado di manipolazione del contesto anche da parte di Finkelstein il quale, va ricordato, parla spesso più da attivista e mosso da un indubbio rancore personale nei confronti di Israele e del movimento sionista rappresentato dalle principali organizzazioni ebraiche americane, che con il distacco dello storico, il libro risulta interessantissimo, soprattuto per la documentazione che presenta e le accuse circostanziate, pare mai smentite nel merito. Il libro risulta anche interessante per farsi un’idea precisa del grado di superficialità della stampa italiana, come risulta evidente dai due articoli citati all’inizio.
Risulta ulteriormente interessante leggere L’industria dell’Olocausto per motivi meno evidenti del puro contenuto informativo. Un motivo è la difficoltà di ascoltare voci critiche così dure provenienti dall’interno del mondo ebraico. Raramente si osservano oggi intellettuali ebrei critici della società ebraica tanto radicali quanto Finkelstein, cosa invece frequente in passato. Questo è uno dei grandi problemi e una delle grandi colpe, a mio parere, della comunità ebraica internazionale che opera una grave forma di autocensura motivata da dogmatismo storico-religioso. Un altro motivo di interesse possiamo ricondurlo a una sorta di vertigine da tabù. Se leggete L’industria dell’Olocausto e vi sentite di considerare la tesi di fondo di Finkelstein e le sue conclusioni come ipotesi valide per una discussione, dovete sapere che ciò automaticamente fa di voi certamente dei bersagli per l’accusa di antisemitismo da parte degli ebrei più ortodossi e dei sostenitori fanatici di Israele. Oltre alla certa accusa di antisemitismo, con una probabilità variabile da interlocutore a interlocutore potreste essere accusati pure di negazionismo se non di fantasie neonaziste. Tutte accuse totalmente prive di fondamento, ovviamente, basate su un livello di intolleranza dogmatica, pelosa convenienza e sostanziale negazione della libertà di pensiero critico che non dovrebbero trovare accoglienza nella nostra società.
Finkelstein è molto duro, ma anche molto accurato, nell’accusare una certa società ebraica occidentale e israeliana di ipocrisia perfino criminale e di avidità senza scrupoli. Certo, risulta facile fare leva su immagini popolari come Shylock o i Savi di Sion per ribaltare l’accusa e cercare rifugio nell’abusato antisemitismo, ma questo funziona per chi si accontenta di spiegazioni emotive, ragionamenti intestinali e comode rassicurazioni. Non funziona invece per chi si sforza di pesare i fatti e le dimostrazioni. Di nuovo, è incendiario e provocatorio Finkelstein, ma anche convincente nel porre con forza il dubbio, quando si spinge fino all’estremo rivolgendo l’accusa innominabile agli stessi che pretenderebbero di agire in nome dell’intera comunità ebraica, inclusi i morti: con la loro azione, da lui giudicata perversa e criminale, sono stati la principale causa del riemergere di pulsioni antisemite in Europa nel corso degli ultimi decenni.
Comunque la vediate, penso che Finkelstein sia da prendere in considerazione e questo libro una lettura utile se non altro per sfuggire dallo stallo culturale della contrapposizione israelo-palestinese e dalla manipolazione ideologica che da quella ne deriva.
Note:
– “An Unpopular Man” – New Republic;
– “Why It Matters That Norman Finkelstein Just Got Arrested Outside the Israeli Consulate” – The Nation;
– Noam Chomsky appoggia Finkelstein, mentre Israele lo lascia fuori dai suoi confini.
Quella del Commercio dell’Olocausto è, per chi ha sempre bramato ricercare la veridicità e le effettive dimensioni dell’Olocausto, storia abbastanza indagata e conosciuta.
Ho letto il libro che ho comperato appena uscito.
E bene ho fatto ad acquistarlo immediatamente chè, fallito l’attacco sistematico alla sua veridicità si è poi passati, silenziosamente, alla sua non ristampa e alla sua scomparsa dalle librerie.
Basta questo per far capire, a chi ha desiderio di verità storica, della veridicità della narrazione di Finkelstein.
Quanto alla possibilità di essere considerato antisemita, francamente non mi intimorisce certo.
Per numero 2 ordini di motivi:
1) Come posso essere antisemita se, nella diaspora medio orientale, sono filo Arabo ?
2) Se fossi antisemita io, cosa dovrebbe essere l’Ebreo Finkenstein ?
Ho sempre pensato che gli esseri umani storicamente onesti debbano essere, obbligatoriamente, revisionisti.
Altrimenti si delegherebbe altri a pensare in nostra vece e si sarebbe vittime di una qualche propaganda asservita ai poteri forti dominanti.
Buon giorno Claudio. Sto cercando disperatamente questo libro da almeno 1 anno nelle varie librerie d’italia, ma non riseco a trovarlo. Potresti aiutarmi , per favore, a trovarne una copia ?
Prima di leggere Finkelstein , immaginavo che ci fossero interessi sostanziosi dietro alla memoria della Shoah. Il rigore con cui lo storico americano ( sottoposto a pesante ostracismo da parte delle potentissime lobby ebraiche ) li documenta, avrebbe dovuto portare ad un ripensamento delle celebrazioni sempre più fiacche e ritualmente vuote nel loro ripetitivo monolitismo. Giacchè è preferibile l’oblio alla memoria che non si fa paradigma strutturante delle altre memorie , di tutti gli offesi della storia e che non contribuisce a capire un presente gravido di nuovi sconvolgenti odi razziali.
Ringrazio 2000 battute per la lettura problematica del libro, peraltro, scomparso dalle librerie.
L’argomento è scivolosissimo e penso si debba essere estremamente cauti, soprattutto nel formarsi un giudizio. Certamente io non ho la conoscenza sufficiente per pesare quanto le critiche di Finkelstein valgano. Però trovo comunque interessante la sua critica per il fatto di rendere problematica una narrazione ufficiale fin troppo immacolata. Ugualmente sono interessanti le voci critiche che si sono levate dall’interno di Israele fin dalla fondazione da parte di alcuni dei suoi scrittori e intellettuali migliori, ben note agli israeliani ma quasi completamente ignote da noi. Con questo io non mi considero ideologicamente in opposizione a Israele, anzi mi considero vicino.
importante parlarne, specie per i più giovani.
Molto interessante, grazie. Certo il terreno è scivoloso non poco, la minima critica e sei antisemita, l’approfondimento non è di questi tempi di chiacchiere da bar.
Sì, il terreno è scivoloso e si presta a qualunque strumentalizzazione. Tuttavia impedire o impedirsi un tentativo di analisi critica di una storia fatta di molte strumentalizzazioni credo sia la soluzione peggiore