«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SEMBRAVA UNA FELICITÀ
Jenny Offill
Traduzione di Francesca Novajra
NN Editore 2015
Questo è un libro divisivo. Che aggettivo orribile, divisivo! Sa di detersivo e pure di appannato. Aggettivo indisponente. Però ci sta per questo libro, perché, io credo, era proprio quello che volevano Mrs Offill e il suo editore: dividere.
Io l’ho letto, poi c’ho pensato un po’, poi ho letto altro, poi c’ho ripensato e alla fine l’ho riletto per cercare di sciogliere questa faccenda della divisività. Tanto è breve, si fa in fretta a rileggerlo. L’ho sciolta? Non del tutto, credo, un po’ rosico ancora, ma abbastanza da non dividermi troppo. Mi sono ricomposto, credo.
Ribadisco il concetto. Questo è un libro deliberatamente pensato, imbastito e scritto per dividere i giudizi. Per cui non è tanto questione di digerire lo stile o “la voce” di Jenny Offill o dibattere se e quanto questi rappresentino un modo nuovo o parzialmente nuovo di scrivere oppure una minestra riscaldata: tutto inutile, serve cambiare prospettiva e disinnescare il trucco della divisività, perché far sembrare bizzarro il narratore e spiazzante lo stile è proprio la trappola che è stata preparata a bella posta.
Restiamo tutti d’un pezzo! (non c’entra niente con la divisività, tranne che per i dissociati).
D: È brava Jenny Offill?
R: Sì, è sicuramente brava, ma non sono sicuro in cosa lo sia.
D: È un bel libro Sembrava una felicità?
R: Divisivamente è bello, ma non sono sicuro se lo sia preso tutto insieme (o forse è vero il contrario?).
D: Il suo commento non sembra molto chiaro.
R: Mi adeguo al libro e commento in modo divisivo.
Un uomo va in giro per il mondo in cerca di posti dove si possa stare immobili e in assoluto silenzio. Pensa che sia impossibile trovare la calma in città perché non si possono sentire gli uccelli cantare. Le nostre orecchie si sono evolute per farci da sistemi di allarme. Dove non ci sono uccelli che cantano, siamo in grande allerta. Vivere in città significa stare sempre sul chi vive.
Stare sul chi vive. La moglie, il marito e la figlia. Parla la moglie, è lei “la voce”. Brancola nella vita. La vita si dipana: fidanzamento, matrimonio, figlia, felicità, forse non tanta quanta immaginava, no, non tanta quanta, problemi domestici, altri problemi domestici, figlia cresce, ulteriori problemi domestici, tradimento del marito, sospensione, tradimento, sospensione, tradimento, marito, non più moglie, moglie, casa, hotel, giardino, casa, marito, inverno, figlia che cresce, e poi niente, finisce perché non c’è niente di interessante da raccontare nella vita della gente, nemmeno nella propria.
Bastano poche pagine per dire tutto quello che serve dire della propria vita. Il resto sono ripetizioni, o chiacchiere che non c’entrano nulla oppure divagazioni. Jenny Offill fa proprio questo.
Ricordo la prima volta che ho pronunciato quelle parole a uno sconosciuto. “È per mia figlia” mi era uscito. Il cuore batteva all’impazzata, come se avessero potuto arrestarmi.
Banalità. Dei pensieri, delle parole e dei gesti di una vita comune. Occorre aggiungere sapore, immaginazione, colore. È a questo che serve la cultura, la letteratura, la conoscenza: a colorare artificialmente il racconto della propria vita. Ripeto: artificialmente. Niente è genuino. Nemmeno nella cultura, tanto meno nella letteratura. Nemmeno in Sembrava una felicità. Forse è questa la ragione di tanta banale sofferenza. Ripeto: sofferenza banale.
Quelle che fanno yoga viaggiano sempre in due, con il tappetino sotto braccio e i capelli rigorosamente corti in stile neomamma. E se qualcuno arrivasse e gli scippasse i tappetini? Dopo quanto tempo mollerebbero?
Ti piacerebbe gestire il mercatino? Ti piacerebbe entrare nel comitato del compost? Ti piacerebbe organizzare una raccolta di vestiti usati? Ti piacerebbe tenere un corso di marionette?
Costruzione artificiosa. Della vita come di un libro. Questo, ad esempio. Sembrava una felicità è stato costruito come si costruisce artificiosamente il racconto della propria vita: la recita di frasi fatte, stile citazionista, aneddoti da Settimana Enigmistica meticolosamente incastonati per blandire il lettore. Annie Ernaux lo scarnifica il racconto del suo tempo per ottenerne un distillato aspro. Jenny Offill invece lo falsifica recitando in falsetto. Gli anni della Ernaux è un monologo rarefatto di eleganza cesellata. Sembrava una felicità è un oggetto stampato in tre dimensioni da un’apparecchiatura industriale. Jenny Offill è il prodotto ben sagomato di un’industria che ha proiettato la scrittura nella ripetizione di una storia americana sempre uguale a se stessa. Come un genere cinematografico, come i film western: stesso canovaccio, cambiano i dettagli. O come una serie televisiva moderna. Ma loro, i televisivi non cercano la divisività. Neppure gli scrittori americani e i loro editori la cercano, di solito. Cercano l’unanimità della maggioranza del popolo dei centri commerciali con gli stucchi di plastica e le catene di negozi alla moda. Buonsenso da buon padre di famiglia capitalista. Questa di Jenny Offill invece è la miglior modernità della costruzione artificiosa e seriale della novel americana in forma divisiva. Capitalismo d’alta gamma, dove quel che conta sono le rotture omologanti invece delle omologazioni senza fratture. Non so se sono stato chiaro in questo passaggio, ma mi piace come suona. Suona come un saliscendi. Eppure l’artificiosità della ricerca della divisività si nota fin troppo nella costruzione della Offill. Anche in Annie Ernaux, si nota una ricerca, ma non l’artificiosità. Si nota la scarnificazione. Ernaux è una gran borghese francese, non americana e una differenza ancora c’è. Qui si nota la decostruzione programmata, l’apertura sistematica dei vuoti tra la banalità di una vita e il loro riempimento con gli aneddoti, le parentesi, gli inframmezzi lessicomusicali, le citazioni autoesplicative, gli spot pubblicitari.
Spot pubblicitari. Il racconto di una vita americana tipica, quella che deve sembrare contenere una felicità, ma forse potremmo togliere l’aggettivo americana, è banalità interrotta da jingle. Jenny Offill, in realtà fa l’ingegnere del suono: taglia, inserisce i jingle-rattoppi, ricuce. Lo fa bene? Lo fa bene. Parecchio.
Per questo è divisiva. Non c’è una media. Sembrava una felicità è un romanzo senza tonalità media, è aritmico, volutamente cacofonico e divisivo. Ma è un romanzo? È letteratura? O è un negozio di moda in un centro commerciale? Cercate la storia, trovate il jingle. Prestate attenzione al jingle, la vita intanto scorre. Vi piace o non vi piace non importa, quello che conta è che citiate le frasi in forma di aforismi decadenti. In fondo, nessuno riesce davvero a essere d’accordo con l’affermazione: il racconto della tua vita è banalità con intermezzi pubblicitari.
Dividetevi.
Chi può dirlo, le nostre possono essere solo speculazioni. Ma è poi così importante? L’autrice, di fatto, mettendo in fila, con un certo distacco, una serie di divagazioni, aneddoti, citazioni, frammenti di pensieri stravaganti e curiosi, stimola delle associazioni che ogni lettore percepisce in base alla propria sensibilità, esperienza, storia. Su di me ha funzionato così, e mi sono ritrovata in parecchie riflessioni. Dopo di che non è un libro che mi ha fatto vibrare, non lo definirei un libro imperdibile; è semplicemente un testo che, a mio avviso, prende spunto dalle vicissitudini della vita della Offill, fatta di felicità e infelicità – come quella di tutti noi- , per declinarsi in un esperimento di scrittura ben riuscito.
Sono d’accordo su fatto che sia un libro ben riuscito e la Offill molto brava. Solo che la struttura del testo è curiosa, c’è chi l’ha associata alla frammentazione della scrittura sui social network, io che sono diffidente verso gli editori americani mi chiedo quanto sia stata progettata a tavolino e quanto sia invece la voce della Offill. Questo non toglie nulla al piacere della lettura
L’ho letto, a me è piaciuto, non mi ha diviso. Forse fa questo effetto più sugli uomini. La storia è banale, parla di aspettative deluse, una donna che voleva scrivere e si ritrova a essere sposata e con una figlia, un rapporto che si inaridisce unilateralmente, una moglie tradita perché il marito si è innamorato di una più facile. Il tutto raccontato in brevi paragrafi, pensieri quasi sconnessi, slegati, toni malinconici, a volte ironici, come quando parla dello yoga come placebo universale.
Può essere, che per raccontare la felicità e l’infelicità della vita, le frasi siano studiate a tavolino, con tanto di citazioni e frasi ad effetto, però bisogna essere bravi per studiarle così bene che ogni tanto volano via, sfrecciano, sterzano, schiantandosi, senza bisogno di far uso di droghe, citando le parole dell’autrice.
In certi punti mi ha ricordato le canzoni criptiche De Gregori “Insegna alla figlia qualche esercizio per le dita ma lei preferirebbe prepararsi un sacchettino di dolci e arrampicarsi su un albero.” Può essere che siano parole sapientemente messe in fila con molto mestiere, ma il suono finale mi piace, così come mi piacciono le canzoni di de Gregori.
E poi concordo col fatto che tutti dovrebbero avere un amico filosofo col quale condividere, e cercare di tenere accesa quella luce interiore che abbiamo alla nascita e che l’ordine delle cose vuole invece che si esaurisca.
Ma la storia della propria felicità e infelicità è la trama nella quale inserisce divagazioni, aneddoti e citazioni criptiche o viceversa, la storia del libro sono le divagazioni e citazioni criptiche inframmezzate dalla storia della propria comune e banale vita?