«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
PIOVE ALL’INSÙ
Luca Rastello
Bollati Boringhieri 2006
Ci sono libri che li riconosci subito; si distinguono, si allontanano dal gruppo, stanno per i fatti loro, non sono solo silenziosi o rumorosi, sono enormemente silenziosi ed enormemente rumorosi, entrambe le cose, quasi sempre.
Ci sono libri che li riconosci dal graffio della stampa sulla carta, sembra che l’inchiostro si sia impresso con un’ansia di penetrare nelle fibre che normalmente non ha. Li riconosci anche da come ti guardano e ti seguono con lo sguardo mentre passi nella camera dove attendono, su un comodino o in una libreria.
Ci sono libri che non si domandano se saranno accolti bene oppure male, se sono vestiti bene o sgualciti, se hanno le orecchie pulite e le ascelle deodorate. Questi libri non pensano a te.
Ci sono libri, che una volta che li leggi, ti accorgi che quelle cose non te le aveva mai dette nessuno; e che nessuno, quelle cose, in quel modo, con quell’espressione, te le dirà ancora.
Piove all’insù è uno di questi libri.
È la storia degli anni ’70, tra Torino, Milano, la Versilia. È una delle tante storie degli anni ’70 che uno che ha vissuto quegli anni si è sentito di scrivere. Degli anni ’70 hanno scritto gli storici e i politici, i romanzieri e i brigatisti, gli intellettuali, i fascisti, i poliziotti e i professori, quelli di destra e quelli di sinistra. Più quelli di sinistra che quelli di destra, ma così è quasi sempre. Gli anni ’70 non sono un mistero. Ci sono misteri ancora non svelati risalenti a quegli anni, ma l’epoca non è un mistero.
Eppure Luca Rastello scrive una storia diversa. Una sua storia e una storia di tutti. Estremamente silenziosa ed estremamente rumorosa.
Scrive con rabbia, quasi con ferocia, ma scrive anche col distacco di chi non rivendica la propria storia, la narra mettendola dentro a una recita sul palcoscenico della memoria e dell’ipocrisia. Scrive con furia, a tratti sembra avventarsi sulle parole, le frasi gli escono stritolate, le scaglia addosso a chi legge, il perbenista stravaccato sul divano che si intrattiene leggendo la sua storia. Si avventa sui ricordi, li estrae con foga e li impasta con l’invenzione letteraria, ne riveste i personaggi e li umilia. C’è una nebbia bassa che aleggia in questo libro, come una coltre fuligginosa che nasconde i piedi. È il senso di umiliazione che non lascia mai la voce narrante. Anche quando sembra voler rivendicare un proprio gesto, un evento, o un pensiero, in realtà ha i piedi bagnati dalla brina dell’umiliazione. I reduci degli anni ’70 vivono un conflitto umiliante se cercano di fare i conti con se stessi e con la propria generazione. La distanza svela i trucchi a cui si fingeva di credere, le meschinità che si accettavano con una motivazione ideologica, i bagordi, la violenza, gli errori risaputi.
È l’eterno supplizio della ruota che devono attraversare tutti coloro che si giudicano e non si assolvono e non assolvono nessuno, né persone né idee.
Un grande libro italiano, da leggere e poi un giorno da rileggere, con gli occhi e la testa, lo stomaco e le mani.
Ti lascio con un rebus. Se non trovi la soluzione te la dico io, domani. Dimmi: che cos’è che Adamo portò con sé dal Paradiso? Che cos’è ciò con cui i bambini giocano e che poi, crescendo buttano via? Che cos’è la pietra che vale più della mucca che ne viene colpita? Che cos’è che è dappertutto ma che nessuno riesce mai a vedere? Di che cosa sono più ricchi i poveri che i ricchi?