«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
VIAGGIO INTORNO AL MIO CRANIO
Frigyes Karinthy
Traduzione di Andrea Rényi
Rizzoli 2010
È il marzo del 1936, Frigyes Karinthy, scrittore ungherese di buona fama al tempo, stava prendendo un tè seduto al solito tavolino di un caffè del centro di Budapest quando sente lo sferragliare di un treno. Se ne meraviglia, non aveva mai notato che da quella piazza si udisse il rumore della ferrovia, poi ritorna ai suoi pensieri. Dopo poco un altro treno sembra partire proprio lì vicino. Si volta, si guarda intorno, si innervosisce per quello strano fenomeno acustico che lo sconcerta. Che cosa sta succedendo? Non se ne rende conto se non dopo altre tre sferragliamenti misteriosi di treni: allucinazioni uditive.
Inizia così questa strana storia, per certi versi appassionante, per altri terrorizzante, spesso pure divertente, che Karinthy scrisse della malattia che diede proprio quel giorno i primi segnali evidenti: un tumore al cervello.
Notai, in quei giorni, un nuovo sintomo: presi a sognare più spesso e, ciò che contava di più, ricordavo molto bene i miei sogni: perfino troppo, al punto che mi sembravano più vividi degli avvenimenti della giornata. Le immagini del sogno erano più chiare, si imprimevano con forza, perché nel sogno i miei occhi erano perfettamente sani. Di uno di questi sogni serbo un ricordo particolarmente nitido. La distribuzione delle luci e delle ombre era molto più netta che nella realtà. Ero a capo di un partito politico, stavo tenendo un lungo discorso in parlamento e le mie parole erano decise, logiche, convincenti. […] A quel punto un individuo dagli occhi iniettati di sangue saltò su, non dai banchi dell’opposizione, ma da una botola nascosta sotto la tribuna. Con voce rauca gridò qualcosa di confuso, non lo capivo. Vedevo solo la sua bocca spalancarsi come un abisso nero. Sentivo le parole: «Trattamento sintomatico, trattamento sintomatico. Basta con il trattamento sintomatico, abbasso i pescecani, abbasso i ricchi, strappatelo via, strappatelo via».
Karinthy racconta e romanza, lo confessa e anzi ne fa il suo scopo quello di romanzare la propria pena durante tutto il corso della malattia, dal lungo periodo in attesa di una diagnosi definitiva che non arrivava, i molti consulti, richiesti e non, le degenze, il peggiorare progressivo delle condizioni di salute, inclusa la cecità incipiente, fino al ricovero a Stoccolma nella clinica del luminare della chirurgia del cervello. Infine l’intervento, svolto in anestesia locale. Karinthy era cosciente e lo narra, in maniera favolistica, onirica, inclusa la classica esperienza di straniamento da se stessi durante la quale ci si osserva dall’alto, come un’anima in volo che osservasse il proprio corpo.
Sopravvisse all’intervento e guarì, il tumore era benigno, lasciando un libro inclassificabile, tra l’autobiografia, la testimonianza, il flusso di coscienza e la commedia leggera, con questo dimostrando il proprio talento letterario.
Bella come lettura, mai macabra o granguignolesca; lieve, ironica, intelligente. Stupenda l’immagine di copertina, The Sawer di Robert e Shana ParkeHarrison.
Il libro contiene anche una perla finale inaspettata. Anzi due. Una è la postfazione di Oliver Sacks. L’altra, la vera perla inaspettata è un brevissimo racconto scritto nel 1929 intitolato Catene. Sono solo sei pagine, ma contengono un tesoro: Karinthy formula per la prima volta la teoria che divenne in seguito celebre con l’esperimento di Milgram dei sei gradi di separazione. Nella teoria di Karinthy ne bastavano cinque di passi, ma non fa nulla, per chi si interessi di queste faccende è un documento storico di importanza straordinaria.
Il gioco continuava e il nostro amico aveva avuto ragione: non occorrevano più di cinque anelli per collegare uno qualunque tra gli abitanti della Terra con uno qualsiasi di noi.