«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL NIPOTE DI WITTGENSTEIN – Un’amicizia
Thomas Bernhard
Traduzione di Renata Colorni
Adelphi 1989
Inizia con questa epigrafe:
Duecento amici verranno
al mio funerale e tu dovrai tenere
un discorso sulla mia tomba
Finisce con questa frase:
Ancora non sono stato a visitare la sua tomba.
Bisogna prestare attenzione alle epigrafi di Bernhard, non solo le sue, certo, ma per le sue è senz’altro necessaria la massima attenzione, perché anche se non sembra, ha già iniziato a picchiarvi quel paletto nella nuca e lo farà fino a sfondarvela.
Secondo voi sta diventando maniacale questa mia rilettura di Bernhard? Ho iniziato a pormi delle domande. Forse era inevitabile perché rileggere Bernhard non è come rileggere Lo Hobbitt, per dire. Chi rilegge Berhard vuol dire che già l’ha letto e in più, girato un certo angolo nella propria vita, decide di rileggerlo. Per vanità, per narcisismo, per fare lo sbruffone su un blog, oppure per motivi che nuotavano al buio dell’intimità e sui quali improvvisamente si è acceso un faro? Potremmo andare avanti pagine e pagine a elencare inutilmente presunti motivi.
Non è solo piacere o curiosità. Su questo mi giocherei qualche soldo. Forse è proprio la ricerca stessa di alcune domande, una autostimolazione sensoriale a porsi determinate domande. Anzi, non determinate domande, domande bernhardiane, per così dire. Ad esempio, Perché non ho trovato modi migliori di fare il vanitoso che non quello di rileggere Bernhard?, è una tipica domanda bernhardiana. Oppure, Quando ho deciso di rileggere Bernhard era per odio nei confronti del mondo? O di me stesso? O di Bernhard?, anche questa è una tipica domanda bernhardiana.
Il nipote di Wittgenstein era il libro che più desideravo rileggere insieme a Il soccombente. I due vanno insieme. Eppure sapevo che l’avrei riletto per quinto, prima dovevano venire i quattro precedenti. Era un percorso molto chiaro nella mia testa: il primo dei primi cinque sarebbe dovuto essere Perturbamento, l’ultimo Il nipote di Wittgenstein, in mezzo gli altri tre. Questi sono i cinque per i quali non a caso Adelphi ha usato la copertina giallina. Sono un corpo unico per me, una montagna di suoni e immagini bernhardiane che rappresentano una mania colorata di giallino. Giallino, come il colore della malattia. Una fissazione. Una ripetizione ossessiva e quindi un’ossessione. Una sinfonia. Una risata. Una sghignazzata da folle. O da saggio. Una rappresentazione grottesca. Assurda. Una scarica di violenza. Di rancore. Un torrente di ingiurie. Sono una scultura tragica. Una sverniciata drammatica. Sono pulcinelleschi. Alpini. Rocciosi. Sono male.
Andai fuori di corsa, quasi dovetti trascinare i miei, e ancora ho nelle orecchie le parole che Paul mi disse quando fummo in strada: Hai permesso che quella gente ti adoperasse! Ti hanno cagato in testa! È vero, pensai, ti hanno cagato in testa. Oggi, ancora una volta, ti hanno cagato in testa, come sempre ti è successo in passato. Ma tu pensa, hai lasciato che ti cagassero in testa e per di più nell’Accademia delle Scienze di Vienna.
Mi domando se Bernhard possa fare male. Oddio ma che dici????, vi sento a voi, quelli dall’indignazione facile. Leggere Bernhard può fare molto male. Certamente. Può avvelenare il sangue. Può devastare una psiche fragile. Può quindi essere un cattivo maestro Bernhard?
Ma d’altra parte, leggere Bernhard mostra panorami di parole, valli di frasi, albe e tramonti narrativi che solo visitando lui si possono osservare. Questa metafora naturalista mi fa sincero orrore. Farsi rapire da Bernhard. Farsi rapire è un’espressione orripilante. Rimanere incantati dalla meraviglia, dall’immemore bellezza. Dalle sonorità, dall’arte. Rimanere incantati dalla descrizione ininterrotta di un tumore da sfamare.
Il nipote di Wittgenstein, il grande monologo della follia del filosofo e della filosofia del folle, la grande narrazione di se stessi e del proprio alter si svolge all’ombra della grandezza della sapienza e della pazzia, annodate con nodi che non si possono sciogliere, si può solo mentire e dichiarare Ludwig un grande filosofo e Paul un pazzo, ma Bernhard non mente, mai o sempre, quindi mai, e il grande monologo di Bernhard stesso dedicato a Paul Wittgenstein, alla sua filosofia e follia, alla malattia del cuore e dell’anima, ai sani e ai malati e alla repulsione dei sani nei confronti dei malati, soprattutto se guariti, alla reclusione nell’ospedale per curare un corpo spezzato e un mente disgregata.
Il nipote di Wittgenstein lo ricordavo come l’apice di una scalata vertiginosa sulle erte della prosa di Bernhard e, come questo fu in un tempo lontano, lo è stato di nuovo anche adesso. Vertiginoso.
L’unica differenza tra Paul e me è che Paul si è lasciato completamente dominare dalla sua pazzia, si è calato, se così si può dire, nella sua pazzia e io invece no, io non mi sono mai lasciato dominare completamente dalla mia pazzia, peraltro non meno grande della sua; per tutta la vita io ho sfruttato la mia pazzia, l’ho dominata, al contrario di Paul che non ha mai dominato la sua pazzia io la mia pazzia l’ho sempre dominata e può darsi che proprio per questo motivo la mia pazzia sia perfino più pazza di quella di Paul. Paul non aveva altro che la sua pazzia ed è vissuto solamente di questa sua pazzia, io oltre alla pazzia ho avuto la tisi, e ho sfruttato entrambe, la pazzia non meno della tisi: di esse, da un giorno all’altro ho fatto la fonte della mia esistenza, in un batter d’occhio, per il resto della mia vita.
Sto diventando maniacale, vero? Ma non smetto di rileggerlo. La montagna ora è stata scalata. Posso ruzzolare nelle fosche praterie bernhardiane, nei geli e nelle cantine. Posso dire che i discorsi su quanti non leggono e perché non lo fanno mi annoiano per la grettezza del soggetto, mentre vorrei sentire molto di più di quelli che rileggono, quelli che si avvelenano ancora una volta e si infliggono domande.
È stato Bernhard a distruggere ogni cosa, a bruciare tutto intorno, a rendermi un riflesso della sua ossessione di pazzo?
Domande. Alle quali non rispondere mai. Da lasciar galleggiare, come immondizia nel mare, e ridere se qualche sciocco punterà verso di loro un dito incerto.
Leggere, e leggere Bernhard sono due attività diverse.
Da qui tutto il resto.
Io ormai leggo solo lui quindi rileggo sfoglio se non altro perché tutte le volte rido come un pazzo.
Non hai ancora letto “Correzione”? Lo farai. E’ inevitabile.
Certo, magari come prossimo, ma non era nella cinquina dei giallini
Imperdibile, come ogni Thomas Bernhard. Dei “giallini” mi manca solo “A colpi d’ascia”, che ora è lì, sulla libreria a mezzo metro da me, che mi chiama con quella inconfondibile voce bernhardiana.
anche tu hai la febbre giallina