«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MICROCOSMI
Claudio Magris
Garzanti 1998
Commento di Cornelio Nepote
Compagni di bisca, di dancing e di sale biliardo… Pulzelle dorate, decorate e festonate… Buon Natale!
Possano queste mie parole scritte alla vigilia dell’evento infausto giungervi quando l’evento è già trascorso.
Quale meraviglioso dono ci viene dalla comunicazione asincrona! Poter sversare malanimo alla vigilia di Natale senza per questo attirarmi le vostre ire per avervi infestato di malanimo la vigilia di Natale.
È il sincronismo a rovinare l’uomo, la donna e il mondo. Andrebbe abrogato, vietato, perfino scomunicato! È nell’immediatezza di botta e di risposta, di stoccata e parata, di carezza e schiaffo, di scritto e letto, di comunicato e ricevuto, di cotto e mangiato, è proprio in quell’assenza di spazio neutrale, di salubre tedio, di scarto temporale, di comica dilazione che l’uomo s’annega nello stagno dell’eterno presente; vuole ribattere, cerca il testa a testa, anela l’arguzia, gareggia. E inevitabilmente perde nel confronto con se stesso. L’anima si sgretola. Il pensiero si polverizza. La sincerità viene scambiata con la rapidità. Tutto questo per la presunzione di poter volare verso il falso sole del mondo sincrono. Ecco perché io non ribatto mai, non rispondo mai, non abbozzo mai. Se volete stringermi la mano io non ve la stringo subito ma solo la volta successiva che ci s’incontra, se vengo baciato non ribacio se non al secondo appuntamento, se mi domandate, lascio passare qualche giorno per rispondere, anche quando la risposta era certa fin da subito.
Pure i libri, per conto mio, vanno letti in modo asincrono. Mai andare alla presentazione di uno appena pubblicato, al massimo a quelle di libri pubblicati da cinque anni, dieci anni almeno e solo se la vita vi pesa assai; non leggere libri novelli, mai parlare con aspiranti scrittori (e ancor meno con aspiranti scrittrici) ma solo con scrittori affermati che da tempo hanno esaurito la vena creativa, preferire sempre gli scrittori morti e gli editori falliti, leggere le classifiche e le liste di consigli con lo stesso spirito col quale leggereste Nostradamus, non credere mai a nulla che un critico letterario, uno scrittore impegnato e men che meno una professoressa di lettere e filosofia afferma con piglio trionfante, aborrire le premiazioni, le allocuzioni e le beatificazioni, ammirare sopra ogni cosa l’incomprensibilità, l’insensatezza, l’erotismo e la sfacciataggine, aspirare alla condizione di russoamericano, francogermanico, italoscandinavo, misogino anti-maschilista, monarchico-anarchico, aristopopolare e malbenista.
Detto ciò, oggi vi parlo di claudiomagrismo come antesignano del fabiovolismo. Claudio Magris lo conoscete tutti. Meriterebbe il Premio Nobel per la Letteratura. Qualcuno si adonterebbe se premiassero Claudio Magris lassù in Svezia? Solo i balordi si adonterebbero, è evidente come una quinta di petto. Io gioirei e salterei e ballerei per i vicoli dei Quartieri Spagnoli per tutta la notte regalando baci e grappini. Mai premio a un italiano sarebbe più scontato, quasi naturale, come se lasciando libero il mondo di girare la ruota a gusto suo, senza impicci, intrusioni e ammanicamenti, il risultato più naturale sarebbe il Premio Nobel a Claudio Magris. Claudio Magris è grande intellettuale, grande scrittore, grande cronista della mitteleuropa, grande europeo pertanto, cosmopolita, travalica i confini nazionali, sale e scende le scale della storia del Novecento, è studioso, erudito, coscienza profonda, uomo saggio e scrittore elegante. Claudio Magris è persona perbene, esclusivo e proletario, si rivolge agli intellettuali e dialoga col popolo. Riempie la piazza del festival nazionalpopolare, con gli editori in prima fila a scavallare le gambe, la plebe incodata per ascoltarlo e gli intellettuali avidi di bandelle a gareggiare per commentarlo. Le signore ne ammirano il portamento, i signori la fermezza della voce. Quasi nessuno ormai capisce di che mannaggia stia parlando, essendo talmente celebre e celebrato che comunica solo per lectio magistralis. Dovrebbe ricevere il Premio Nobel immediatamente, a furor di popolo.
Leggiamo tutti insieme l’inizio di Microcosmi, che io definirei senza vergogna monumentale:
Le maschere stanno in alto, sopra il bancone di legno nero intarsiato, che proviene dalla rinomata falegnameria Cante – rinomata almeno un tempo, ma al Caffè San Marco le insegne onorate e la fama durano un po’ di più; anche quella di chi, quale unico titolo per essere ricordato, può accampare soltanto – ma non è poco – il fatto di aver passato degli anni a quei tavolini di marmo dalla gamba di ghisa, che finisce in un piedistallo poggiato su zampe di leone, e di aver detto ogni tanto la sua sulla giusta pressione della birra e sull’universo.
Sentito che roba? La voce baritonale, il ritmo posato, lo sguardo serio si poggia su ogni dettaglio e lo elenca, ripulito, dignitosamente collocato al suo posto come in un presepe, infine spruzza la scena d’un velo d’ironia. Guaglio’, gli scrittorelli d’oggi, tolti due al massimo tre, s’hanno da sciacquarsi la bocca, e pure farsi un pediluvio caldo, prima di paragonarsi a Claudio Magris.
‘Spettate che vi faccio sentire n’altro pezzariello, che è Natale… abbondiamo! Qui siamo in Istria, tra i frantumi della diaspora, terra italica strappataci dagli infidi slavi inselvatichiti.
Lubenizze, a picco sul mare e spesso investita da una bora possente, è quasi spopolata;
“Bora possente”, sentito che aggettivo che vi piazza sto barbablu d’un Magris? Mette “possente” dopo “bora” e già ci si immagina questo paesello di sventurati strapazzato continuamente da quel ventaccio. Poi continua, adesso arriva la storia popolare, come s’ha da fa’ tra persone coscienzose.
[…] fra le case abitate, circondate da macerie e muri pericolanti, si vedono soprattutto donne anziane. Rosarija vive in una linda piccola casa, fra rovine di altre abitazioni diroccate. È sola; una sorella le porta ogni tanto qualcosa da Cherso, per integrare la sua misera pensione. Alle pareti molte fotografie di suo padre, morto vecchissimo da non molti anni, che è sempre vissuto con lei quando non navigava, ed è, insieme alla precisa nomenclatura e cronologia del clero del villaggio, l’unico oggetto della sua vita e dei suoi ricordi.
Rosarija è fiera che Lubenizze abbia dato, in proporzione, tanti preti – ben tre – ed è contenta di accudire alla chiesa, cambiar l’acqua ai fiori, accendere le candele.
Avete inteso? È la storia di una vecchia beghina dimenticata da tutti tranne che dalla sorella. Ma è anche uno sberleffo ai pretonzoli e alle beghine e pure agli slavi. E le descrizioni? Che descrizioni! Le descrizioni del claudiomagrismo sono torrenziali, microscopiche, anatomopatologiche, conta i petali dei fiori e le zampe dei millepiedi, poi li mette in belle parole, non tralascia mai una descrizione. Tutto il descrivibile va descritto, questa è la prima regola del claudiomagrismo. E per questo piace tanto alle folle nazionalpopolari e ai vecchi lettori del corrieredellasera: descrive e descrive e descrive tanto bene e tanto a lungo che uno può smettere di ascoltare dopo un po’ e lasciarsi trasportare come in una barca alla deriva lungo un fiume, o una carrozza ferroviaria nella notte o anche una ninnananna del tempo dei piscialetto. Per questo è bellissimo ascoltarlo nella eterna lectio magistralis della piazza del festival, senza capire un acca delle astruserie che racconta, con i microfoni che fischiano, i lorsignori catturati dall’erudito sul palco che si aggiustano il nodo della cravatta per compensare con la buona creanza il titanico ma inutile sforzo di comprensione, le signore fremono a ogni tirata e si tamponano il cerone crepato, infine tutti quanti si gettano sui telefonini compulsando freneticamente messaggi ad amici parenti e conoscenti per celebrare la meraviglia delle parole del maestro.
E così, immodestamente parlando, pure io ho fatto con questo MicrocosmiPremioStrega1997: ho letto, mi sono abbandonato al ronzio del raccontare claudiomagresco, ho sonnambulato immaginando stanche bore possenti e scassate stube altoatesine, mi sono dolcemente perduto nell’eternità dell’elencazione dei dettagli, dello scintillio dei granuli di polvere, tra le pagliuzze sulla tavola chiamate per nome a una a una. Ho riconosciuto la letteratura in loden della buona borghesia norditalica e mitteleuropea, la perduta dignità torinomilanese e triestinoistriana, la compostezza del periodare, l’erudizione inavvicinabile come sovrana in carrozza che dondola la manina guantata, la forma letteraria monumentale accresciuta per strati sedimentari, storia dopo storia, persona dopo persona, ricordo dopo ricordo, centinaia, migliaia, una fila indiana chilometrica, con la testa prima dell’alba e la coda oltre il tramonto (o il contrario se preferite). Il claudiomagrismo è la faccia dell’Italia che si pensava sarebbe potuta esistere ma che non è mai esistita. L’Italia mitteleuropea, austroungarica e pangermanica. Non insozzata da zampacce slave e mai tollerante delle svaccatezze terroneborboniche. È l’Italia onesta, colta, laboriosa, elegante e senza ostentazione né di virtù né di difetti. Il claudiomagrismo è l’Italia che si illude di vivere nella modernità della storia europea, invece di essere una propaggine mal rasata e poco propensa all’uso del sapone in un Mediterraneo nordafricano e levantino. Povero Claudio Magris, la sua Italia non è mai esistita, il claudiomagrismo ha solo partorito il fabiovolismo e pure quelle teste di mais gli negano il Premio Nobel che tanto si meriterebbe.
Vabbuo’, basta accussì. Andate in pace a bere e mangiare e non fate le pulcinellate sotto le mie finestre.
Nepote Don Cornelio
Nepote don Cornè,
mmò venimmo a nuje, al di là e al di qua e anche nel mezzo d’o libbro c’avita recensito non recensito ‘o juorno 26 d’o mese ‘e dicembre, praticamente doppo quasi ddoje jurnate ca è nato ‘o bambeniello, cioè Gesù Cristo ca so’ duemil’anni a chesta parte ca fa dinto e fora, isso ma pure chella povera mamma di Maria e chillu vicchiariello di don Peppino, ma vabbuò se sape ca mamme e pate p’e’ figli fanno sacrifici pecché i figli, anche quelli adottati, so’ piezz’e core. Stù core ca pur’isso spissso perde ‘a capa, e sempe in nome e ll’ammore, fa cierti fesserie ca te fanno rimanè comm’a nu mammalucco. Venimmo a nuje pecchè mi tirate p’a giacca e p’e capille sia quanno avite accummenzate stu ragionamento scritto e sia alla fine, con cui vi intrattenete, alle care lettrici e ai lettori, augurando pace e buone e saporite abbuffate pantagrueliche, mentre ‘o ninno s’arrangia dint’a grotte c’o latte d’e zizze chiene di mamma Maria; e a me, con e attraverso le jacovelle giocose napulitane r’o dialetto, pe’ lo trattenimento de’ gruosse e d’e piccerilli. ‘Nzomma, praticamente, si chiacchiera e si scrive, dalla Tv alla radio, da internet attraverso i blog e altro, dai giornali e riviste e fino ai libri ma ci stà sempe chi muore ancora, ancora e ancora. E forse quelli che muoiono non hanno letto mai libro; forse non potevano o forse non hanno avuto nè il tempo e ne ‘a capa: pure pecché quanno si legge, o si scrive(o scrivere è solo disperata disperazione perché la solitudine è negli occhi e nel cuore di chi ti cammina o camminava a fianco a te)devi tenere la capa fresca. Un articolo di un giornale cartaceo, digitale o un libro delle stesse modalità escono sempre troppo tardi rispetto a chi va via troppo presto. Un libro, i suoi fogli, nero su fogli bianchi, un computer forse cadono in fondo al mare. Per fare un libro ci vuole un albero, per fare un computer del materiale vario, per fare un bambino (e farlo nascere), nel giorno 24 a mezzanotte, da ruimila anni, senza stancarsi mai mai mai, ci vuole una giovane di nome Maria appartenente alla razza umana, emigrante, ‘nu vicchiariello faligname anche lui fuggitivo emigrante da guerre e persecuzioni e accussì, è nato ‘nu criaturo umano come si fosse ‘nu criature come milioni e milioni di altri piccirilli.
E tanti tanti ‘e sti criature, appena nasceno doppo ‘nu poco moreno; moreno mmiez’o mare:maronna mia, che friddo dint’a ll’ossa. E ‘o core perd’a capa.
Senza saper né legger e né scrivere non mi è mai capitato, anche dopo quando ho imparato a memoria a recitare davanti a un pubblico distratto e indaffarato, di essere attratto da un libro di Claudio Magris anche quando c’era in Tv chi diceva e urlava: Danubio Danubio Danubio. Ma però, non ricordo bene, forse era quell’altro scrittore esordiente o lo scrittore ormai vegliardo e arido come un asciugamano nel sole della controra di luglio e agosto, di sicuro non Pullecenella ca alluccava: Vesevo Vesevo Vesevo fammè coglier’ i frutti ‘e chesta terra fucosa e lucente. Di sicuro era chill’atu scrittore che si manteneva ancora a galla, ma nonostante perdeva botte nella casa delle belle femmine more, diceva oscuramente: Patria, Patria, Patria.