«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CORREZIONE
Thomas Bernhard
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi 1995
Correggiamo in continuazione e correggiamo noi stessi con la massima durezza, perché a ogni istante riconosciamo che abbiamo fatto (scritto, pensato, eseguito) tutto in modo falso, che abbiamo agito in modo falso, come abbiamo agito in modo falso, che tutto fino a questo momento è una falsificazione, per cui correggiamo questa falsificazione e ricorreggiamo la correzione di questa falsificazione e correggiamo il risultato di questa correzione della correzione e così via, così Roithamer. Ma rimandiamo la vera correzione, quella che altri hanno fatto senza esitare da un momento all’altro, penso, così Roithamer, hanno potuto fare quando anche loro non ci hanno pensato più perché hanno avuto paura anche solo di pensarci, ma poi si sono corretti, come mio cugino, come suo padre, mio zio, come tutti gli altri che abbiamo conosciuto, che abbiamo creduto di conoscere fino in fondo, ma non conoscevamo tutte queste persone come caratteri perché siamo stati sorpresi dalla loro correzione, diversamente non saremmo stati sorpresi dalla loro vera correzione fondamentale, il loro suicidio.
Un’ossessione può assumere infinite forme e infiniti sono i modi che riesce a trovare per alimentarsi dello stesso corpo nel quale dimora. È allo stesso tempo non consequenziale e logica, eterea e carnale; gioca a rimpiattino, si nasconde, poi all’improvviso ulula, ruggisce, si dimena indiavolata. Un’ossessione è sempre autodistruttiva, anche quando sembra rivolta ad altri, anche se veste i panni della difesa. In taluni prende l’aspetto di una coscienza che non dà tregua, di un tribunale per l’autocondanna, di una pena senza fine.
Correzione, forse il più terribile dei testi di Bernhard. Uno dei commenti più difficili e una copertina da codice penale. Correzione è un Leviatano che divora chi lo legge, ha divorato chi l’ha scritto, divora le sue stesse parole, divora perfino il senso stesso del narrare. Ma non sono qui per disquisire sui testi di Bernhard. Ci sono saggi, critiche, tesi universitarie in abbondanza che hanno tentato di districare il groviglio. Io sono qui per parlare, se riesco, di quello di cui non si parla di solito.
L’ho detto: il senso della mia rilettura sta nell’osservare e testimoniare gli effetti della rilettura stessa su di me a distanza di vent’anni o più: non seguo alcun ordine se non quello della memoria e osservo come e se si innesca nuovamente l’ossessione bernhardiana di un tempo, quali stati d’animo turbati dalla potenza di quelle immagini rivivo e le reazioni fisiche all’assunzione forzata di quelle parole, in tempi che mi impongo ravvicinati. C’è chi ha sperimentato su se stesso gli effetti di sostanze psicotrope, dell’isolamento in una caverna, della manipolazione dei ritmi circadiani; io mi faccio cavia della somministrazione dell’ossessione letteraria di Bernhard.
Con Correzione gli effetti iniziano a farsi allucinatori, è svanita la sorpresa del riascolto di quello stile inimitabile, svanita l’eccitazione per la prodigiosa maestria, svanito anche l’impeto atletico di volergli tenergli testa rispondendo al ritmo delle frasi con altrettanto ritmo nella lettura. Resta il colore che talvolta incupisce, l’uso ipnotico della ripetizione, le tracce delle scene di autodistruzione che rimbalzano di libro in libro, di nuovo e ancora, ancora quelle composizioni sceniche triangolari: una voce, una vittima e un principe dell’autodistruzione; ancora una volta la maniacale riproposizione della ferocia nei confronti del mondo, della famiglia, dello stato, delle istituzioni, delle convenzioni, fino all’odio reciproco tra sé e la società; ma ancora e di più è l’ironia, il sarcasmo e l’uso forsennato del grottesco che vanno a confondere ogni tentativo di dare un ordine cartesiano alle parole. L’allucinazione che prende piede dipende dal fatto che Bernhard sgretola con tutta la violenza di un Creatore ogni tentativo di consolazione attraverso un ordine. È l’indefinitezza quella che resta, come un alito che si gela a mezz’aria e cade in forma di brina. Rimane la consapevolezza di quanto scavarono in profondità, vent’anni fa, le parole che ora rileggo, quanta vita distrussero, quanta ne generarono, quanto ne rimasi sfigurato.
Adesso vedo, dissi, che la vita di Roithamer, tutta la sua esistenza, si è concentrata unicamente sulla realizzazione del cono, ognuno ha una sua idea che alla fine lo uccide, un’idea che nasce dentro di lui e che infine, prima o poi e sempre nel momento del massimo sforzo lo uccide, lo distrugge.
Roithamer, il protagonista di Correzione, il principe dell’autodistruzione, progetta un cono. Un’abitazione. Per la sorella, la vittima. Il cono è una forma perfetta, a sua volta capace di racchiudere un’organizzazione perfetta, collocato al centro perfetto di un luogo senza confini. È la definizione geometrica di bene ideale, di giustizia ideale, di amore ideale. È la forma che prende l’ossessione e attraverso quella avrà luogo la vera correzione fondamentale. Una voce postuma narra.
Quando su un corpo, in aggiunta al proprio peso, agiscono forze esterne, il corpo si rovescia su un lato della superficie d’appoggio, se la linea di influenza delle cosiddette risultanti di tutte le forze attive incrocia il piano di posizione all’’esterno della superficie d’appoggio […]
Nessuno può mettere in discussione la grandezza assoluta di Bernhard. A nessuno sfugge la trama fitta di senso che le sue parole tessono né la potenza di quella farneticazione scagliata addosso al lettore. Ciò che invece è più difficile da osservare senza farsene travolgere è la fusione tra opposti che Bernhard produce: ferocia autodistruttiva portata all’estremo, fino al suicidio, fino alla correzione ultima, fino all’annichilamento di tutto, e grottesco da teatro di ciarlatani portato all’estremo, fino al surreale, fino al delirio del pazzo, fino a ricoprirsi di ridicolo.
È facile trovare un ordine nella foga distruttrice ed è altrettanto facile trovarlo nella rappresentazione grottesca. Ma non esiste ordine possibile nel suicidio grottesco, nella morte ridicola o nella farsa di una danza macabra. È con questa sovversione che Bernhard si fa beffe di ogni lettore, critico, commentatore e studioso.
Quale critico letterario, giornalista di pagine culturali o anche professore di letteratura avrebbe il fegato di sottoscrivere pubblicamente una dichiarazione nella quale si certifica che Correzione di Thomas Bernhard, un libro dalla bellezza aliena, rappresenta inequivocabilmente un’istigazione al suicidio ed è pertanto un libro di estrema pericolosità sociale? Eppure delle due l’una: o chi legge si mantiene distaccato dal testo che si avvolge in spire velenose cercandone un ordine, ma in questo modo si rende indistinguibile dall’oggetto del disprezzo del libro stesso, ritrovandosi a far parte di coloro odiati da Bernhard, essere in tutto e per tutto parte dell’osceno del mondo di Correzione. Oppure, se il fascino dell’arte che lo scrittore possiede, la bellezza tremenda di quella prosa, l’implacabilità di quell’ossessione predano, allora niente si frappone tra egli e la vera correzione fondamentale.
Chi viene inevitabilmente solleticato dal fascino macabro del suicida bernhardiano è proprio il suo lettore più romantico, più innamorato, più indifeso. Correzione divora i propri lettori. Chi si salva è di certo il cinico che ne coglie solo il grottesco, la voce da imbonitore che mostra il pazzo in gabbia mentre mangia i propri escrementi. Ma per leggere davvero Correzione, il Grande Libro della Farsa dell’Autodistruzione, occorre essere duplici, ballare la danza macabra ridendo, lasciarsi solleticare dal fascino della propria distruzione trovandola comica, vedere il mondo di Bernhard putrefarsi come un qualunque ridicolo poster pubblicitario; bisogna denudarsi e ballare in strada, bisogna rendersi osceni nei pensieri e nelle parole, Correzione non può essere rinchiuso in un editoriale, in un commento, in una tesi di laurea, in un saggio critico. La sua bellezza cristallina sta nel male che induce e nel ridicolo che produce.
Proseguo.
Rimane il mio preferito di B. (Anche se non ho letto “Fornace”, che cinque anni fa qualcuno di Adelphi mi aveva detto che sarebbe stato ripubblicato “a breve”). Mi permetto di segnalarle la mia “recensione”: è del 2013, ero “giovane e ingenuo” e cercavo ancora una forma d’impatto (senza riuscirci), ma sul contenuto (se si riesce a estrapolarlo) sono ancora d’accordo con me stesso.
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http://www.mangialibri.com/libri/correzione
Qui, se si vuole commentare, bisogna farlo partendo dal non acquisito, dalle formulette ben scritte, ma da un libero scambio interiore di afflato in terra di confine, tra le nuvole e la materia che ti appieda, usando lo spartito jazz: altro non dovrebbe rientrarci, anche quando sai che tale scrittore adopera mescalina, vino rosso, tequila o femmine dallo scalpo soltanto rosso o un bicchiere sempre colmo di cognac. Più lo scrittore si allontana da sé, ancor più è invischiato nelle spire della vita materiale. Il tema è l’ossessione, servendosi della correzione, ( o senso di colpa, o la confessione dal prete che però fuori dalla chiesa cerca la salvezza nel percorso laico in cui il prete all’abbisogno è il soggetto stesso o tutt’al più, se ci si fida, l’amico) cercando nei limiti della sopravvivenza, quando per abitudine o tradizione o ipocrisia e falsità, il modo di rinnovare l’allungamento e il proseguo della personale esistenza. La correzione, intesa come svariate correzioni a monte, si accumula: e, per facilitare l’obiettivo o la risoluzione della via maestra, s’ingrossa, appunto si ingrossa e ne ingloba tutte le altre che ognuno ha sulle spalle, ma direi nella pancia, nello stomaco, nella voce. Anche quando la voce tace o prorompe o è logorroica. La correzione è un po’ come guardarsi allo specchio, ma, nel bene e nel male, c’è sempre un velo, un aplomb, un alone, una vampata, uno squallore sordido, un opacità da vapore acqueo. Altrimenti il paese il cui vive lo scrittore, o anche il poeta o il disgraziato o il furbo o il figlio di buona madre che crede fermamente che è solo una questione personale, individuale nel conto generale del dare e avere, del dare e prendere o fottere. Tutti sono educati a fottere:fottere innanzitutto se stesso attraverso la rappresentazione stupida degli altri. Parlare o scrivere o sussurrare della propria correzione il giorno dopo che si è guardato in faccia l’errore, lo sbaglio, il giudizio e il comportamento persino di una sola parola è cosa non facile, specie quando la correzione è intessuta dai soliti reiterati peccati e dalle ossessioni. Confessare è non solo alleggerirsi della reale o presunta zavorra, ma deviare il proprio quotidiano che attraverso le correzioni non passa mai. In molti non vogliamo sentire parlare o scrivere di suicidio, nonostante siamo in molti a suicidarci ogni giorno, lentamente. La correzione non è altro, quando non si vuol vedere, che un suicidio centellinato, gocciolante, addirittura terapia attraverso il veleno dell’ossessione. Perché, se si vuole parlare o scrivere di suicidio, utilizzando la correzione, bisogna suonare il jazz delle parole, altrimenti ci travestiamo di rigido razionalismo opposto alla paura? Perché la struttura creativa, cioè libera, del jazz ci difende abbatte gli steccati, i muri e le paure, insite e alimentate dall’uomo stesso. Affrontare, o meglio mettersi a leggere, Thomas Bernard vuol dire svestirsi dei nostri panni mentali. Affrontare il leone vuol dire entrare nella bocca del leone così per il lupo:andare nella nostra tana;la tana del lupo. Se abbiamo ridotto gli animali sotto la soglia della dignità attraverso la “civilizzazione” dell’ammaestramento del circo equestre, lo stesso King Kong dell’ennesimo remake, significa allontanare l’uomo dall’uomo e l’uomo della sua intimità, animale. Bernard ci parla della nostra autodistruzione attraverso la parte di noi che allontaniamo e corrompiamo:siamo marci e corrotti. Persino quella bambina che a un chiosco vendeva ai clienti le bibite scadute e la pannocchia in decomposizione, dicendo che era buona. Uomo, donna, genere umano perché metti sempre il dito nella piaga, almeno una volta o tante nella correzione quotidiana?
«Persino quella bambina che a un chiosco vendeva ai clienti le bibite scadute e la pannocchia in decomposizione, dicendo che era buona.»
Questa sarebbe piaciuta anche a Bernhard, io credo.