«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CHIEDERÒ PERDONO AI SOGNI
Sorj Chalandon
Traduzione di Silvia Turato
Keller 2014
È molto bello questo libro con l’unica pecca, io penso, di un titolo sbagliato nell’edizione italiana. Il titolo originale è Retour à Killybegs e nessuno prima di leggere la storia avrebbe saputo che Killybegs è una piccola località irlandese, anzi in molti sarebbero rimasti perplessi – Dov’è Killybegs? Cos’è Killybegs? – grattandosi la testa, ingrugnando la bocca o afferrandosi il mento. Chiederò perdono ai sogni è la rivisitazione di “chiedere perdono ai miei sogni”, frammento di pensiero del protagonista, con le due non piccole modifiche del tempo verbale e del possessivo svanito, che assume un suono ambiguo, sfuggente, tendente in modo pericoloso al sentimentalismo, mentre questo libro non lo è affatto.
Proprio di un ritorno del protagonista al villaggio natale, nella casa natale, si racconta, là dove la storia era iniziata, con una morte ingloriosa, e dove finirà, con un’altrettanto ingloriosa morte. Ed è proprio con la metafora di miseria, riscossa e nuova miseria che Chalandon racconta la storia di una parte di Irlanda del Nord. La racconta con la vicenda di Tyrone Meehan, dall’infanzia poverissima in Irlanda con un padre nazionalista, spavaldo e violento, gli otto fratelli e sorelle e la madre sull’orlo della follia, fino al trasferimento nella Belfast degli anni Quaranta insanguinata da bombardamenti tedeschi e scontri tra la minoranza cattolica e i protestanti affiancati da esercito e polizia. Tyrone Meehan diventerà prima un membro dell’organizzazione giovanile dell’IRA, poi un combattente, un dirigente dell’esercito ribelle nordirlandese, un carcerato, uno scioperante nelle proteste dei detenuti. Tyrone Meehan è un padre di famiglia, un marito innamorato, una guida per i giovani del ghetto cattolico di Belfast, un reduce di molte battaglie, un soldato che ha difeso le barricate in mezzo al fuoco dei britannici e dei lealisti.
Tyrone Meehan è un’eroe della guerra dell’IRA degli anni Settanta e Ottanta.
Ma Tyrone Meehan è anche un traditore, per vent’anni agente dei britannici.
Un grande patriota e un traditore della sua gente. Un traditore pur rimanendo un grande patriota.
È su questa contraddizione drammatica che si gioca tutta la storia.
Sullo sfondo scorrono le immagini della povertà estrema dell’Irlanda dei primi decenni del Novecento, bambini cenciosi e villaggi arcaici immersi in un’atmosfera nazionalistica accesa. Poi la scena si sposta oltre confine nell’enclave cattolica di Belfast, regno e non più repubblica, Gran Bretagna e non più Irlanda. Qui le immagini che scorrono sono quelle tipiche di un ghetto, per di più un ghetto assediato nel mezzo di una guerra mondiale. Le scene sono claustrofobiche, case incendiate dai bombardamenti nazisti e incendiate dalle aggressioni dei protestanti, miseria diffusa, famiglie in fuga di strada in strada, il senso di popolo in guerra per la propria sopravvivenza che prevale su tutto, l’orgoglio della resistenza e del contrattacco. Violenza costante e tepori familiari da sfollati.
Sullo sfondo scorrono le immagini di una guerra che non avrebbero mai potuto vincere, le immagini dell’orgoglio del predestinato alla sconfitta, alla prigione, alle botte, alla morte, ma anche le immagini delle famiglie sconvolte, dei bambini orfani, del troppo dolore e i troppi lutti. Scorrono le immagini delle carceri, dello sciopero dell’igiene durato anni, con i detenuti nudi e gli escrementi spalmati sui muri, le immagini dello sciopero della fame con Bobby Sands a guidarlo e a morire per primo il 5 maggio 1981 a 27 anni, seguito da altri nove, mentre altri sono stati salvati all’ultimo dai parenti e molti attendevano di iniziarlo. Scorrono veloci le immagini di una rabbia durata decenni.
Poi le immagini sullo sfondo si sfocano, non corre più il nastro della Storia a spingere la vita di Tyrone Meeham. La Storia si ferma. Le luci si spengono, le grida, le raffiche, le esplosioni, le botte, tutto si attenua e si smorza. Tyrone Meeham accetta l’offerta degli inglesi e la storia precipita. È la fine degli ideali, la fine degli eroismi, la fine del tempo dei martiri. È il tempo dei compromessi, degli armistizi, del rilascio dei prigionieri, tempo di far tacere le armi. Tempo di politica, il Sinn Feín non più l’IRA, tempo che le famiglie si riuniscano, che le strade non siano campi di battaglia, che le persone non muoiano colpite dai cecchini o sventrate dalle bombe.
Ma Tyrome Meeham è il traditore. La sua storia si conclude da traditore, non da eroe.
Si chiude il libro e si capisce perché talvolta viene detto che solo Dio può giudicare, se mai esiste questo Dio del quale tanto si parla.
Davvero bello. Non lo si dimentica facilmente.
Il fiore era come me, a testa bassa. Sheila si alzò. Glielo porsi. Stavo per parlare, ma lei mi posò la punta delle dita sulle labbra. Nessuna menzogna. Avevamo concordato la verità o il silenzio. Allora avrebbe ricevuto il silenzio. Volevo salire in camera, radunare qualche vestito da mettere in borsa. Sheila me la passò. Era già pronta, appoggiata alla poltrona. L’aveva preparata lei. Non sapeva niente, ma immaginava tutto. In cima c’erano soldi, un panino uova e cipolla, una bottiglia d’acqua.
E le chiavi di Killybegs.