«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CANTO DELLA PIANURA
Kent Haruf
Traduzione di Fabio Cremonesi
NN Editore 2015
Questo è il primo titolo della trilogia di Kent Haruf, che leggo dopo averlo conosciuto con Our souls at night, la sua ultima opera postuma, non ancora pubblicata in Italia. Continuo a leggerlo nell’edizione originale americana, in realtà, invece della traduzione italiana più per abitudine e affetto che altro: ormai conosco la sua voce, so che forma hanno le frasi e che parole sceglie, è un inglese molto semplice il suo, del Midwest, tradizionale, conviviale, senza sofisticazioni, anzi deve essere comprensibile a tutti. È lento e cadenzato come la parlata dei suoi personaggi, scandisce lo scorrere sempre identico del tempo nella cittadina di Holt, in Colorado, il luogo immaginario dove si svolgono le sue storie, quella di Our souls at night inclusa. È una lingua desueta e antica quella che usa, semplice come lo sono i pensieri e le azioni degli uomini e delle donne della sua terra. Ogni gesto ha una causa e produce un effetto. Le vite sono regolate da principi, esiste una comunità, questi sono i punti di riferimento che una terra piatta e sconfinata altrimenti non offrirebbe. Sono vite del Midwest americano, vite da sopravvissuti.
Guthrie.
Here was this man Tom Guthrie in Holt standing at the back window in the kitchen of his house smoking cigarettes and looking out over the back lot where the sun was just coming up. When the sun reached the top of the windmill, for a while he watched what it was doing, that increased reddening of sunrise along the steel blades and the tail vane above the wooden platform. After a time he put out the cigarette and went upstairs and walked past the closed door behind which she lay in bed in the darkened guest room sleeping or not and went down the hall to the glassy room over the kitchen where the two boys were.
Guthrie.
C’era quest’uomo Tom Guthrie a Holt in piedi davanti alla finestra sul retro nella cucina della sua casa fumando sigarette e guardando fuori verso il terreno sul retro sul quale il sole stava sorgendo in quel momento. Quando il sole ebbe raggiunto la cima del mulino a vento, per un po’ guardò cosa stesse accadendo, quel rossore che si intensificava lungo le pale di acciaio e l’ala di coda al di sopra della piattaforma di legno. Dopo un certo tempo spense la sigaretta e andò al piano di sopra passò davanti alla porta chiusa dietro la quale lei era sdraiata nel letto della camera degli ospiti buia dormendo oppure no poi raggiunse la stanza finestrata dove stavano i due ragazzini alla fine del corridoio sopra la cucina. (traduzione mia)
A parte le incertezze della mia traduzione, questa è la tipica voce di Haruf. Descrittiva in modo perfino scenografico. Sembra che scriva per spiegare come debbano essere collocati, nella maniera più inequivoca possibile, gli oggetti sulla scena, le persone, come creare le ombre, quali colori stendere, che materiali scegliere affinché si producano determinati rumori. È talmente didascalico nelle descrizioni che si direbbe una scrittura cinematografica la sua, scena per scena, inquadratura per inquadratura, battuta per battuta, è un copione e una sceneggiatura quella che compone. Niente è nascosto, tutto è esplicito in modo che sembra quasi ostentato nel mondo di Haruf, tutto viene detto e fatto sotto una luce piatta e bianca, non esistono retropensieri, angoli bui, scarti tra parola e coscienza. Il mondo di Haruf è esattamente quello che lui descrive con la massima cura. Lo stesso vale per il linguaggio e le azioni dei protagonisti. Non esiste ambiguità, né richiedono interpretazioni. Sono frasi e gesti pronunciate e compiuti lentamente. Anche quando i personaggi corrono o si affannano il ritmo lento non si perturba. Questo è lo stile americano del midwest di Kent Haruf.
Lenta deve quindi essere anche la lettura. Potete divorare pagine a velocità vertiginosa, ma rimarrà comunque un procedere lento e cadenzato. Poco a poco, spostandosi da un personaggio all’altro, Haruf dà forma a Holt. Una vicenda è quella di Guthrie il padre dei due ragazzini, Ike e Bobby, marito di una coppia in crisi e insegnante della scuola superiore del paese. Ike e Bobby, ragazzini di nove e dieci anni, imperturbabili come maschere, si alternano tra il padre, la Madre (Mother) che ha abbandonato la casa e un’anziana signora. Un’altra vicenda è quella dei due anziani fratelli McPherons, allevatori di vacche, solitari, ruvidi e onesti. Due statue di marmo incrollabili rette da pochi e saldi principi di un tempo. Con loro Victoria Roubideaux, diciassettenne incinta cacciata da casa, senza risorse, amici, solo l’aiuto di un’insegnante.
La storia tra i due rudi fe anziani fratelli e l’esile ragazzina partoriente è senza dubbio quella più commovente e dolce. Raccontata con tratti scarni, poche parole e qualche gesto eloquente colpisce e intenerisce. Io penso però che siano i due ragazzini Ike e Bobby e il loro incessante movimento apparentemente insensato a rappresentare il tratto più originale dell’opera. Sono loro l’elemento che esce dai canoni, quello che nella laconicità dei dialoghi diventa enigmatico. Ci si domanda che ragazzini siano quei due, così anomali, così diversi dai normali ragazzini. Mentre tutti gli altri personaggi non fanno che costruire l’immagine di Holt come luogo connotato da semplicità e solidità arcaica che sopravvive alla modernità, Ike e Bobby ne scompaginano le certezze e i piani. Attraverso di loro entra l’irrazionale, la sorpresa e l’ambiguità. Holt, grazie a due ragazzini insolitamente maturi ha una parte di mistero, inspiegabile, artefatta.
Bello.
Ora veniamo al resto.
Iniziando dal titolo, Plainsong quello originale, Canto della pianura quello italiano, lo stesso della prima edizione italiana dell’opera apparsa nel 2000 per Rizzoli e dell’attuale di NN. Anche quello italiano è un bel titolo, evocativo e poetico. Che però cambia il senso originale.
Così scrive Haruf in epigrafe:
Plainsong—the unisonous vocal music used in the Christian church from the earliest times; any simple and unadorned melody or air
Quindi, nessun “canto della pianura”, “plain” non è inteso come sostantivo di “pianura” ma come aggettivo di “piano, piatto”. Un plainsong quindi è una litania religiosa. Il libro e l’intera trilogia si intitola Plainsong per via dello stile, del ritmo, della musica delle parole e della forma dei dialoghi. In effetti il modo di parlare dei personaggi evoca una litania o, come scrive Haruf, una “melodia o aria semplice e disadorna”. Così sono la scrittura di Haruf, la storia Holt, questo libro e immagino l’intera trilogia, e anche l’ultima opera postuma Our souls at night: melodie semplici e disadorne.
Melodie semplici e disadorne. Non vi sembra bellissimo immaginare un anziano signore del midwest americano, uno che sa scrivere e raccontare in modo sublime, pensare di lasciare come propria traccia alcune melodie semplici e disadorne? Non vi sembra oltre che bellissimo, anche profondamente antitetico alla vanità di tanti mediocrissimi scrittori, alla concitazione degli uffici stampa, alla oscenità di certe librerie e ai comunicati promozionali di qualche editore? Non vi sembra che meriti di essere tirato fuori, messo da parte rispetto al nostro continuo accumulo di ornamenti, suppellettili, circonlocuzioni, complicazioni e inconcludenze? Io penso di sì, io penso che lo meriti di non essere miscelato con le nostre nevrosi. Penso che Haruf debba rimanere semplice e disadorno.
NN è un bell’editore, nuovo e con alcune proposte editoriali apprezzabili. Che stia (ri)scoprendo Haruf per il pubblico italiano è un merito, che lo stia facendo con successo è un merito ancora maggiore. Ha iniziato con Benedizione, seguito da Canto della Pianura. È bene però tenere presente che questa è la bibliografia originale della trilogia di Kent Haruf:
Quindi, l’ordine di pubblicazione che sta seguendo NN non è quello originale, bisogna dirlo chiaramente. Ora, che NN abbia avuto motivi validi – questioni di diritti, traduzioni o altro – per rimescolare l’ordine è comprensibile (Nota: NN segnala che qui c’è la spiegazione); che, come sostiene, il legame tra l’ultimo libro, Benedizione, e i primi due siano labili e ciò renda possibile la lettura in un ordine differente dall’originale senza ambiguità o perdite di senso lo si può anche (parzialmente) credere.
Quello che risulta poco accettabile è leggere delle sciocchezze come quella di Giuseppe Culicchia per Tuttolibri – La Stampa che dice “Con Canto della Pianura, tradotto da Fabio Cremonesi, l’americano Kent Haruf […] ha scritto il secondo capitolo di una trilogia iniziata col romanzo Benedizione e destinata a concludersi con un terzo volume intitolato Crepuscolo.”
Lo stesso su Amazon (non so a chi attribuire la responsabilità) invece di chiarire ai lettori la non coincidenza tra l’ordine di pubblicazione e l’ordine originale, si cerca di far credere che quello dell’edizione italiana sia quello corretto intitolando Benedizione. Trilogia della pianura: 1 e Canto della pianura. Trilogia della pianura: 2.
Basta così. Chiudo la parentesi polemica.
Ripeto quello che ho detto prima. Penso che Haruf debba rimanere semplice e disadorno. È una voce calda che racconta imperturbabile senza mai curarsi dell’agitazione dei mondani.
Ho letto le prime 70 pagine e ora ho deciso di lasciare. Manca qualcosa, un motivo per procedere, una spinta emotiva, il nutrimento di uno stile particolare, il trascinamento di una scrittura liquida. Mi sono annoiata e innervosita. Ma non escludo che possa ripensarci.
capisco bene la reazione
Dopo aver tanto sentito parlare di Haruf, ho finalmente iniziato Canto della pianura. Mi disturbano i numerosi “luminoso” disseminati nel romanzo ma, a parte questo, dopo poche pagine ero già affezionata alla cittadina di Holt. Vediamo se verrò catturata anch’io dalla voce piana e luminosa (come recita lo spot radiofonico) di Kent Haruf. Ma anche la versione originale è costellata di luminoso/bright?
È pieno di bright.
Sono d’accordo con buona parte di quello che scrivi, ma la polemica potrebbe essere smorzata in parte leggendo la lettera aperta di NN Editore ai lettori di Benedizione ( http://www.nneditore.it/lettera-aperta-ai-lettori-di-haruf/ ).
Certo, la numerazione in copertina trae in inganno, su questo sono completamente d’accordo con te.
L’avevo letta. È ragionevole quello che ha fatto NN, non voglio polemizzare.
Purtroppo ormai il pressapochismo detta le regole, hai ragione a puntualizzare, altro che polemica. Io nulla sapendo ho letto Benedizione, non mi è spiaciuto ma l’ho trovato molto vecchio come scrittura, non ha lasciato grandi tracce. Forse sono un po’ mondana anch’io ma a mia insaputa, sobh
che si informino questi sciagurati invece di parlare a vanvera..