«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA TIGRE
Walter Serner
Traduzione di Elvira Lima
Elliot 2015
Leggo dalla bella introduzione al testo che di Walter Serner non era mai stato tradotto niente in italiano. La tigre sembra esserne l’opera più rappresentativa. Walter Serner viene presentato come una delle figure di spicco del Dadaismo a cavallo tra le due guerre, un personaggio più istrionico e avventuroso che letterato, certo meno letterato di quanto esperto frequentatore di locali notturni e teorico avanguardista della frammentazione dada.
E da buon dadaista, antiborghese, istrionico, grottesco, simbolista e provocatore, ossessionato dall’apparenza sconcertante e dalla forma deforme, Walter Serner scrive una storia sgangherata, ben piantata nel canone della bohème, molto dada per la sfrontatezza da pisciatoio in mostra, un po’ didascalica perché si capisce subito dove vuole andare a parare e tutta fatta a ritagli e sforbiciate tirate un po’ di qua e un po’ di là.
Come sbarcava il lunario non lo sapeva nessuno. Per la verità, nei giri della Parigi che conta, è proprio questo il presupposto per essere presi sul serio; senonché il fatto che Fec non giocava e non si vedeva mai in pubblico in palese compagnia femminile, insomma in nessuna delle situazioni da cui può scaturire un qualche eventuale introito, sortiva l’effetto, in genere svantaggioso, che nessuno lo prendeva sul serio.
Questo è Fec, il protagonista maschile. Ora Bichette, la tigre.
La chiamavano così non solo perché in generale quest’appellativo le calzava a pennello, ma anche perché lo giustificava in pieno coi fatti: era dissoluta, crudele, perfida, spesso abietta e ossessionata da un’irrefrenabile propensione al vagabondaggio. Aveva i capelli rosso rame, gli occhi neri incorniciati di bianco bluastro e possedeva, in parte come dote naturale, le tinte marcate che la parigina si appiccica col trucco.
La storia è quella di Fec e Bichette. Un po’ avventura malandrina, un po’ dissolutezza di costumi e letti sfatti, un po’ provocazione verbale con l’argot onnipresente, un manifesto per épater le bourgeois, non altro, non molto di più. Efficace però visto che i bourgeois più ottusi di tutti, i nazisti che in quegli anni prendevano il potere, misero al bando il simpatico e innocuo romanzo dada.
Vale la pena leggerlo anche solo in sprezzo a quelli che lo vollero bandire considerandolo osceno. Ma senza aspettarsi troppo. È un’opera piuttosto grossolana, i personaggi sono intagliati a colpi di accetta, i due amanti si attardano in dialoghi cervellotici che non portano a nulla invece di sprizzare erotismo e la vicenda si annoda ma senza che Serner sia in grado di colorarla a tinte forti per poi sferrare una solida frustata alla groppa del lettore. Curiosamente simile come canovaccio all’Amaro, non troppo del grande José Pablo Feinmann, ma senza la maestria dell’argentino.