«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
K. O LA FIGLIA DESAPARECIDA
Bernardo Kucinski
Traduzione di Vincenzo Barca
Giuntina 2016
K.
Una lettera iniziale puntata che rappresenta una parte importante di storia della letteratura del Novecento. Usata, riusata, abusata, strumentalizzata e banalizzata. Come quasi tutto nel Novecento e ancor più nel Duemila.
La storia si ripete sempre, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.
Si dice così di solito. La vulgata popolare dice così, ma la citazione corretta sarebbe un’altra.
Sembra veramente che il vecchio Hegel conduca dalla sua tomba la storia, come spirito del mondo, e con grande coscienziosità faccia che tutto si presenti due volte, una volta come tragedia, la seconda volta come farsa pidocchiosa – Caussidière per Danton, Louis Blanc per Robespierre, Barthélemy per Saint-Just, Flocon per Carnot e il vitello della luna, con la prima mezza dozzina che gli capiti di sottotenenti carichi di debiti, per il piccolo caporale e la sua tavolata di marescialli.
Così scriveva Engels a Marx nel 1851 e in effetti c’è una certa ironia, perché come la storia anche le citazioni sembrano ripetersi sempre, la prima volta come profezia le successive come farsa, e di farsa in farsa le citazioni rotolano lungo le pagine, vanno di bocca in bocca, ogni volta un po’ più cialtrone, un po’ più zotiche, un po’ più imbolsite. Alla fine diventano solo motteggi, aria fritta, frasi evanescenti per il gioco di ruoli che va in scena al teatro del mondo.
K. di Bernardo Kucinski è un’eccezione. Nel suo caso è implicita un’ironia, funerea, macabra, forse, ma pur sempre un’ironia. K. cita il personaggio di Kafka che cita se stesso oppure cita Kucinski nei panni di un novello K. kafkiano? Oppure cita soltanto una citazione, giocando sulla ricorsione storica che tutto ricopre di ridicolo? Di quale K. parliamo, leggendo K. di Bernardo Kucinski? Uno nessuno centomila, diceva un altro grande saggio novecentesco che molto aveva già intuito e trombonescamente noi lo citiamo.
Uno nessuno centomila K.
Si potrebbe scrivere un pezzo con questo titolo, ci starebbe bene, per parlare del gioco degli specchi che riflettono fino all’infinito un’immagine, l’icona di K., l’immagine del personaggio senza nome né volto né storia più celebre della letteratura. Che ritorna sempre, riemerge dall’acqua buia sotto la quale di volta in volta viene nascosto per mostrare il suo volto grottesco e informe.
Caro lettore,
tutto in questo libro è invenzione,
ma quasi tutto è successo.B.K.
Così si apre K., con un’epigrafe enigmatica ma inequivocabile. Ancora di più la distanza tra il K. kafkiano e il K. kucinskiniano si assottiglia.
Nell’aprile del 1974, la sorella Ana Rosa Kucinski e il cognato Wilson Silva scompaiono a San Paolo. Di loro non si avranno più notizie. Figureranno nell’elenco dei desaparecidos del regime del dittatore brasiliano Ernesto Geisel. Ana Rosa era una militante comunista e docente alla facoltà di Chimica dell’Università di San Paolo. Aveva trentadue anni, come il marito, quando venne arrestata. Questa è la notizia storica.
In K. è una figlia a essere scomparsa, insieme al marito. Era trentenne, insegnava alla facoltà di Chimica dell’Università di San Paolo. Si chiama A., la figlia; K. è il padre e voce narrante.
Romanzo o denuncia? È l’enigma insito nel K. kafkiano, la sua natura immortale, duplice, inscindibile, impossibile tracciare un segno che separi con certezza l’immaginario dal reale, inutile cercare di svestire la narrazione dai panni della fantasia per svelare il corpo nudo della storia. K. rimane enigmatico, polimorfico, un essere bicefalo i cui due volti sono entrambi privi di espressione, K. è un mostro gotico, simbolico e grottesco, eppure parlante, portatore di senso, a tratti evidente, in altri momenti sfuggente.
Nel K. di Kucinski, il padre racconta la sua ricerca di notizie riguardanti la figlia scomparsa dopo essere stata portata in una caserma dai militari. Sono passati trent’anni. Lo sa che è morta. Come tutti i genitori, parenti e amici di desaparecidos che ancora ne cercano le tracce dopo così lungo tempo. Eppure, come tutti coloro che non hanno un corpo da seppellire, non hanno informazioni sui modi e i tempi del decesso, sulle cause, sui responsabili, come tutti coloro che hanno solo l’assenza a comprovare la scomparsa, anche K. non rinuncia a mantenere viva una possibilità inconcepibile, del tutto irrealistica.
K. racconta e raccoglie frammenti. Racconta dei meandri della burocrazia che chiude ogni porta, frappone ogni tipo di ostacolo alla domanda di notizie. Ritrova frammenti di notizie, scopre un’esistenza della figlia durante la clandestinità della quale nulla aveva saputo, perfino del matrimonio non aveva avuto notizia, come dei luoghi di residenza.
Eppure, sullo sfondo di questo dramma personale, K. racconta con l’ironia che non può mancare nel riproporre il grottesco kafkiano. È anche una citazione questo libro, un K. che cita un altro K., il capostipite di tutti i K. del mondo, dei tanti, innumerevoli K. che si sono succeduti. Kucinski è di gran lunga abbastanza consapevole del fatto che non c’è altro modo di citare K. se non attraverso l’ironia e il grottesco. L’autoironia di chi ricorre a un’icona e il grottesco della ripetizione storica.
Il risultato è un libro breve e intenso, magistrale nella sua composizione, enigmatico, tortuoso e grottesco. È la storia di un K. che cerca ciò che sa non esistere più, essersi polverizzato senza lasciare tracce. Diventa quindi la storia dell’osservazione di se stesso durante la ricerca, senza possibilità di giungere a una definizione, riconoscendone i tratti dell’inutilità, della futilità, della necessità. Il K. di Kucinski osserva il K. kafkiano conoscendone già il finale.
A poco a poco K. cominciò a rendersi conto che c’era un ostacolo più grande. È vero che le parole comunque limitavano ciò che si voleva dire, ma non era questo il problema principale; il suo blocco non era linguistico ma morale: era un errore fare della tragedia della figlia l’oggetto di una creazione letteraria, era un errore e non da poco. Compiacersi per aver scritto qualcosa di bello su un fatto così orrendo. Tanto più che era stato per colpa di quel maledetto yiddish che lui non si era accorto di quello che stava succedendo proprio sotto i suoi occhi, gli stratagemmi della figlia per evitare che lui andasse a trovarla, i suoi viaggi improvvisi senza dire dove andava.